28 novembre 2009
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione della Lectio magistralis sull’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI svolta il 20 novembre 2009, a Bologna, dal Cardinale Carlo Caffarra, in occasione di un incontro organizzato dalla Fondazione Unipolis e da Unindustria Bologna.
3. Giunti a questo punto della nostra riflessione possiamo individuare con una certa facilità la domanda fondamentale a cui l’Enciclica cerca di rispondere.
Se è la carità che costruisce i rapporti sociali; se la carità chiede quali sia in verità una buona società [caritas in veritate], la domanda fondamentale allora è: quale è il vero sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera? E quindi, come contro-domanda fondamentale: quali sono i principali errori, e quindi le insidie più gravi circa lo sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera?
Se voi verificate semplicemente l’indice dell’Enciclica, potete rendervi conto che questa è la sua “filigrana teoretica”. Una filigrana in cui s’intrecciano i due fili, le due risposte a domanda e contro-domanda, non limitandosi ad affermazioni generiche, ma analizzando i momenti costitutivi della vita umana associata. Ovviamente non ne faccio l’analisi completa; vi dicevo all’inizio, che non intendo sostituirmi alla lettura personale. Mi limito a due richiami di fondo. L’uno all’interno della risposta alla domanda, l’altro, della risposta alla contro- domanda.
Il primo. Partiamo da un’esperienza semplice, quotidiana, ma stupenda. Nella comunità famigliare la fraternità - l’essere in più figli degli stessi genitori - mostra e fa vivere il fatto che lo stesso amore - quello dei genitori, appunto - è condiviso senza essere spartito, è comunicato senza essere diminuito, è moltiplicato senza essere raffreddato. È la sublime esperienza della fraternità dove ciascuno è se stesso nella sua diversità, ma ugualmente riconosciuto nella sua dignità.
L’Enciclica insiste varie volte nell’affermare che il vero sviluppo della società si fonda sulla fraternità. Ma l’esperienza della fraternità può sorgere solo dall’esperienza della stessa paternità. Scrive l’Enciclica: «Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”» [29].
Il secondo. Uno dei rischi e delle insidie più gravi oggi al vero sviluppo dell’uomo è la tecnocrazia o, come lo chiama il S. Padre, «l’assolutismo della tecnicità».
Per “assolutismo della tecnicità” intendo la riduzione della intenzionalità umana, cioè del rapporto dell’uomo colla realtà, alla determinazione e costruzione della medesima secondo i nostri progetti. Si riduce la ragione umana alla sua capacità di misurare le cose cioè di progettarle e costruirle, fabbricarle e dominarle. Come dice la Caritas in veritate si afferma la coincidenza del vero col fattibile [70]. Di fronte ad un possibile corso di azione la ragione di attuarlo è «così agisco, perché è tecnicamente possibile», e non «così agisco perché è bene agire in questo modo».
Ma se elimino dalla coscienza dell’uomo la verità del bene moralmente inteso, non resta come forza motivante della volontà che il bene utile e/o piacevole. Forse ciò che ha reso l’uomo occidentale schiavo della tecnica è stata la concezione dell’uomo come soggetto utilitario. [Ho riflettuto a lungo sul rapporto fra tecnocrazia e soggetto utilitario nella Lectio magistralis del 12 settembre scorso tenuta alla Società di medicina-chirurgia di Bologna; cf. www.caffarra.it, oppure www.bologna.chiesacattolica.it]
Sempre l’Enc. Caritas in veritate parla del rischio dell’umanità «di trovarsi rinchiusa dentro un apriori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità» [ibid.]. L’affermazione è teoreticamente forte. Essa dice che si costituirebbe un “forma” che configura ogni approccio dell’uomo alla realtà. Colla conseguenza che «noi tutti conosceremmo, valuteremmo, e decideremmo le situazioni della nostra vita dall’interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai trovare un senso che non sia da noi prodotto».
E questa è la definizione congruente dell’ospite più inquietante che è venuto a dimorare nella nostra esistenza: il nichilismo. Il nichilismo è la negazione che si dia - si doni un senso, poiché non esiste senso che non sia da noi prodotto.
Che ne è dell’uomo dentro all’orizzonte culturale tecnocratico? Molto semplicemente: niente; dell’essere dell’uomo non ne è più niente, poiché l’essere dell’uomo è una produzione dell’uomo stesso.
Siamo così ritornati al punto di partenza. Se non esiste una verità circa il bene della persona: se la carità non è nella verità, l’uomo è esposto ad ogni pericolo.
4. Sono così giunto alla conclusione. Mi faccio ancora una domanda: questa Enciclica riguarda tutti, o solo chi ha responsabilità politiche, sociali, economiche, finanziarie?
Riguarda tutti noi, almeno per due ragioni connesse. Essa ci aiuta a capire il fatto sociale nelle sue espressioni fondamentali, alla luce congiunta della ragione e della fede. In una situazione come quella attuale di grave incertezza, fare luce è la prima necessità.
L’Enciclica poi, e di conseguenza, ci educa a quel discernimento o giudizio mediante il quale impariamo non solo a capire, ma anche a valutare ciò che accade nella società di oggi. Senza essere schiavi delle mode imperanti.
Ma soprattutto chi a vario titolo ha responsabilità sociali non può ignorare questo documento. Va letto tenendo sempre presente che esso si pone al di sopra della sviante distinzione fra “destra” e “sinistra” correggendo l’una con apporti dell’altra. L’Enciclica si pone oltre. Essa affronta ed offre soluzioni a questioni assai concrete ed ancora oggi irrisolte, relative alla vita personale e sociale: le domande che ogni uomo, di “destra” o “sinistra” che sia, ma veramente appassionato al suo destino, non può non avere.
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione della Lectio magistralis sull’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI svolta il 20 novembre 2009, a Bologna, dal Cardinale Carlo Caffarra, in occasione di un incontro organizzato dalla Fondazione Unipolis e da Unindustria Bologna.
3. Giunti a questo punto della nostra riflessione possiamo individuare con una certa facilità la domanda fondamentale a cui l’Enciclica cerca di rispondere.
Se è la carità che costruisce i rapporti sociali; se la carità chiede quali sia in verità una buona società [caritas in veritate], la domanda fondamentale allora è: quale è il vero sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera? E quindi, come contro-domanda fondamentale: quali sono i principali errori, e quindi le insidie più gravi circa lo sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera?
Se voi verificate semplicemente l’indice dell’Enciclica, potete rendervi conto che questa è la sua “filigrana teoretica”. Una filigrana in cui s’intrecciano i due fili, le due risposte a domanda e contro-domanda, non limitandosi ad affermazioni generiche, ma analizzando i momenti costitutivi della vita umana associata. Ovviamente non ne faccio l’analisi completa; vi dicevo all’inizio, che non intendo sostituirmi alla lettura personale. Mi limito a due richiami di fondo. L’uno all’interno della risposta alla domanda, l’altro, della risposta alla contro- domanda.
Il primo. Partiamo da un’esperienza semplice, quotidiana, ma stupenda. Nella comunità famigliare la fraternità - l’essere in più figli degli stessi genitori - mostra e fa vivere il fatto che lo stesso amore - quello dei genitori, appunto - è condiviso senza essere spartito, è comunicato senza essere diminuito, è moltiplicato senza essere raffreddato. È la sublime esperienza della fraternità dove ciascuno è se stesso nella sua diversità, ma ugualmente riconosciuto nella sua dignità.
L’Enciclica insiste varie volte nell’affermare che il vero sviluppo della società si fonda sulla fraternità. Ma l’esperienza della fraternità può sorgere solo dall’esperienza della stessa paternità. Scrive l’Enciclica: «Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”» [29].
Il secondo. Uno dei rischi e delle insidie più gravi oggi al vero sviluppo dell’uomo è la tecnocrazia o, come lo chiama il S. Padre, «l’assolutismo della tecnicità».
Per “assolutismo della tecnicità” intendo la riduzione della intenzionalità umana, cioè del rapporto dell’uomo colla realtà, alla determinazione e costruzione della medesima secondo i nostri progetti. Si riduce la ragione umana alla sua capacità di misurare le cose cioè di progettarle e costruirle, fabbricarle e dominarle. Come dice la Caritas in veritate si afferma la coincidenza del vero col fattibile [70]. Di fronte ad un possibile corso di azione la ragione di attuarlo è «così agisco, perché è tecnicamente possibile», e non «così agisco perché è bene agire in questo modo».
Ma se elimino dalla coscienza dell’uomo la verità del bene moralmente inteso, non resta come forza motivante della volontà che il bene utile e/o piacevole. Forse ciò che ha reso l’uomo occidentale schiavo della tecnica è stata la concezione dell’uomo come soggetto utilitario. [Ho riflettuto a lungo sul rapporto fra tecnocrazia e soggetto utilitario nella Lectio magistralis del 12 settembre scorso tenuta alla Società di medicina-chirurgia di Bologna; cf. www.caffarra.it, oppure www.bologna.chiesacattolica.it]
Sempre l’Enc. Caritas in veritate parla del rischio dell’umanità «di trovarsi rinchiusa dentro un apriori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità» [ibid.]. L’affermazione è teoreticamente forte. Essa dice che si costituirebbe un “forma” che configura ogni approccio dell’uomo alla realtà. Colla conseguenza che «noi tutti conosceremmo, valuteremmo, e decideremmo le situazioni della nostra vita dall’interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai trovare un senso che non sia da noi prodotto».
E questa è la definizione congruente dell’ospite più inquietante che è venuto a dimorare nella nostra esistenza: il nichilismo. Il nichilismo è la negazione che si dia - si doni un senso, poiché non esiste senso che non sia da noi prodotto.
Che ne è dell’uomo dentro all’orizzonte culturale tecnocratico? Molto semplicemente: niente; dell’essere dell’uomo non ne è più niente, poiché l’essere dell’uomo è una produzione dell’uomo stesso.
Siamo così ritornati al punto di partenza. Se non esiste una verità circa il bene della persona: se la carità non è nella verità, l’uomo è esposto ad ogni pericolo.
4. Sono così giunto alla conclusione. Mi faccio ancora una domanda: questa Enciclica riguarda tutti, o solo chi ha responsabilità politiche, sociali, economiche, finanziarie?
Riguarda tutti noi, almeno per due ragioni connesse. Essa ci aiuta a capire il fatto sociale nelle sue espressioni fondamentali, alla luce congiunta della ragione e della fede. In una situazione come quella attuale di grave incertezza, fare luce è la prima necessità.
L’Enciclica poi, e di conseguenza, ci educa a quel discernimento o giudizio mediante il quale impariamo non solo a capire, ma anche a valutare ciò che accade nella società di oggi. Senza essere schiavi delle mode imperanti.
Ma soprattutto chi a vario titolo ha responsabilità sociali non può ignorare questo documento. Va letto tenendo sempre presente che esso si pone al di sopra della sviante distinzione fra “destra” e “sinistra” correggendo l’una con apporti dell’altra. L’Enciclica si pone oltre. Essa affronta ed offre soluzioni a questioni assai concrete ed ancora oggi irrisolte, relative alla vita personale e sociale: le domande che ogni uomo, di “destra” o “sinistra” che sia, ma veramente appassionato al suo destino, non può non avere.
(2-FINE)
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