mercoledì 17 febbraio 2010

FEDE E CULTURA, L'INSUPERABILE CIRCOLARITA' (2)

13 febbraio 2010
Tratto da ZENIT.org

Continua la pubblicazione dell'editoriale del Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, apparso sull'ultimo numero di “Oasis” (n. 10, 2009) dedicato al tema “Le fedi alla prova della modernità”.
Fede, Cultura
Nel frattempo, e per far pendere la bilancia dal lato di una vita buona, un considerevole contributo potrà essere fornito proprio da un’adeguata articolazione del rapporto tra fede e cultura. In effetti, nell’odierno contesto delle società plurali si assiste generalmente a una riduzione della fede a puro belief, un insieme di convinzioni assunte magari con decisione, ma condannate a restare nell’ambito dell’esperienza soggettiva, perché prive di ragioni oggettivamente documentabili. È evidente che dall’interno di questa prospettiva lo spazio per il dialogo tra le religioni si riduce drasticamente: esso non potrà che tradursi nell’enunciazione di alcune comuni aspirazioni, prive però delle vie e degli strumenti per attuarsi.
Ma anche la cultura non esce bene da una tale situazione: essa si dissolve di fatto nella molteplicità “turistica” delle culture, tra loro incommensurabili (e dunque incomunicabili); le certezze, le “cose serie”, sarebbero fornite unicamente dalle tecnoscienze: «noi tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita dall'interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto» [Caritas in Veritate, n° 70]. Gli articolati livelli della conoscenza sarebbero assorbiti in quello proprio della conoscenza scientifica-sperimentale. Come talora si ripete provocatoriamente, la (tecno-) scienza unisce e le religioni (e le culture) dividono. La conclusione appare obbligata, accettate le premesse. Ma siamo davvero costretti a farlo?
Non era di questo avviso Giovanni Paolo II quando, nell’indimenticabile discorso all’UNESCO del 2 giugno 1980, affermò: «Genus humanum arte et ratione vivit [cfr. S. Thomae In Aristotelis Post. Analyt., 1]. [...] La cultura è un modo specifico dell’“esistere” e dell’“essere” dell’uomo» (n° 6). E poco oltre: «La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, “è” di più, accede di più all’“essere”» (n° 7). Nella visione di Giovanni Paolo II la cultura, ben oltre la dimensione puramente strumentale dell’avere, permette all’uomo di indagare su di sé, sul proprio essere (n° 7). E poiché questo humanum che la cultura è chiamata a incrementare è comune a tutti i soggetti, ma non è mai compiutamente posseduto da alcuno di essi, la pluralità delle culture è inevitabile e tuttavia, in forza della comune radice antropologica, non può prescindere dalla cultura. Di conseguenza, la comunicazione tra le culture risulta non solo possibile, ma si rivela necessaria nel cammino verso l’incremento dell’humanum.
D’altro canto, come osservava l’allora Cardinal Ratzinger in una formula particolarmente illuminante, «non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura»(1). La fede, offrendo all’uomo un’ipotesi interpretativa del reale, produce cultura; ma, d’altra parte, la/e cultura/e, esercitandosi, interpreta(no) le fedi stesse. Nel tempo storico, una tale dinamica è insuperabile. Non ha senso pertanto contrapporre un momento iniziale di assoluta chiarezza (nel nostro caso una fantomatica “pura fede”, da situare di preferenza in una mitizzata realtà delle origini) a un tempo delle interpretazioni, dalla nebulosità crescente (“la cultura”, “la religione” in senso barthiano), ma occorre piuttosto pensare a un continuo scambio tra questi due poli. La cultura è sempre da purificare ¬alla luce della fede, ma la fede è sempre da interpretare secondo le istanze suscitate dalla cultura. Come afferma Fides et Ratio al n° 71, «il modo in cui i cristiani vivono la fede è anch’esso permeato dalla cultura dell’ambiente circostante e contribuisce, a sua volta, a modellarne progressivamente le caratteristiche»"(2). Visto dal lato della fede cristiana, ciò significa che ogni cultura valorizza alcuni aspetti dell’autorivelazione divina, ma ne omette o sminuisce altri. Peraltro il realismo cristiano afferma che il bilancio tra quanto è perduto e quanto è mantenuto dell’evento iniziale non è in semplice pareggio o peggio in secca perdita, come un’eco di una voce lontana che si ripercuotesse sempre più fioca: nel trascorrere del tempo cresce infatti l’intelligenza delle verità rivelate(3).
È in quella più completa concezione e della cultura e della fede evocata nelle parole di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che riteniamo si fondi, senza alcuna concessione al relativismo, l’affermazione di una inevitabile interpretazione culturale della fede, così come, per converso, si deve parlare di una inevitabile critica della fede sulla cultura. Con un ultimo passaggio, particolarmente rilevante per Oasis, aggiungiamo che tale dinamica ci appare obbligata anche per le altre religioni. Comunque esse concepiscano il loro rapporto con il Divino, esso risulta sempre culturalmente mediato. Non potrebbe non essere così se è vero che la cultura è «il modo proprio dell’esistenza umana» e che proprio nell’esistenza umana si radica la religione. L’inevitabile interpretazione culturale riguarda dunque ogni espressione religiosa, senza naturalmente inferire indebitamente da questo una presunta intercambiabilità delle varie fedi.

(2-Continua)

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