lunedì 9 novembre 2009

SPECIALE ENCICLICA "CARITAS IN VERITATE" - WELFARE NEL QUADRO DELL'ENCICLICA / 1 (69.ESIMA PARTE)

1° novembre 2009
Tratto da ZENIT.org
Ecco il testo pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, in occasione della due giorni di formazione, promossa dall’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà sul tema: “Crisi, occasione per un nuovo welfare”, dal 17 al 18 settembre a Sarteano (SI), all’Abbazia di Spineto.
1. Un cambio di paradigma
Anche ad un profano dell’economia e delle sue implicazioni socio-politiche non mancano informazioni sufficienti per affermare che, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, tutti i sistemi di welfare europei hanno dovuto confrontarsi con la trasformazione, profonda e a volte tumultuosa, dei rispettivi contesti sociali. Ciò è avvenuto sotto la spinta di fenomeni complessi, di natura esogena (legati alla dinamica di globalizzazione economica e sociale, all’emergere dei problemi connessi al “meticciato di civiltà”) o endogena (legati soprattutto all’invecchiamento della popolazione e alla modificazione dei sistemi occupazionali).
La risposta è consistita in una azione di “ricalibratura” ma, in realtà, ora si vede bene che la situazione domanda un vero e proprio cambio di paradigma. È richiesta una modificazione profonda dell’assetto normativo che regola le politiche sociali per fare spazio a nuovi modelli, pur senza rimettere in discussione i principi di solidarietà ed eguaglianza che hanno caratterizzato l’avvento dei sistemi di welfare state.
In particolare non appare più pensabile la perfetta coincidenza tra politiche sociali e politiche pubbliche, dal momento che altri settori della società (gli attori di mercato, le famiglie, le organizzazioni del privato sociale) si stanno rivelando non di rado capaci di affrontare i nuovi bisogni in modo più efficace dello Stato.
Nell’alveo di questo ripensamento è nata l’idea di “welfare society” con le sue differenti modalità applicative orientate alla sussidiarietà. Le sue implicazioni sembrano investire, in modo differenziato, tutti i modelli di politiche sociali fin qui conosciuti, determinando un cambiamento che è già visibile in alcuni esperimenti soprattutto a livello regionale.
All’origine della proposta di una welfare society è individuabile l’ipotesi di un cambiamento nel concepire lo stato sociale sulla base del necessario passaggio da una concezione individualistica della cittadinanza ad una visione personale-comunitaria di essa. Questa si fonda sul riconoscimento di un pluralismo sociale che si articola, a livello di sfera pubblica, attraverso il principio di sussidiarietà. Questa nuova modalità di cittadinanza nasce dall’associarsi dei cittadini mediante la creazione di corpi intermedi e di iniziative partecipate dal basso.
È evidente che tale ipotesi prende fisionomia da una svolta di tipo antropologico che comporta una decisiva conseguenza nella configurazione delle relazioni tra lo Stato e la società. Nell’orizzonte di questa antropologia adeguata si snoda la proposta di sviluppo integrale, inteso come percorso realistico e virtuoso, propria della Caritas in Veritate (soprattutto CV, 45).
2. Antropologia adeguata
L’odierna società post-secolare, tecnicamente plurale, ha sgombrato, senza volerlo, il terreno da due tenaci dogmi moderni. La cosiddetta morte del soggetto conseguente al proclama di Nietzsche circa la morte di Dio.
In che modo? Tutti percepiamo che l’esaltazione atomistica dell’individuo chiamato a relazionarsi con le sole sue forze ad uno Stato leviatano (Hobbes) cui ha previamente devoluto passioni e diritti, ha favorito oggi la nascita di un nuovo soggetto collettivo ad opera della tecnoscienza. In questo senso il soggetto non è affatto morto. Sulle ceneri del vecchio soggetto empirico è sorto un nuovo soggetto “tecnocratico” che rischia di rendere il primo (il soggetto empirico), ormai ridotto ad oggetto, una semplice protesi, una mera funzione di questo nuovo, inquietante soggetto collettivo. In questa prospettiva si è giunti a definire l’uomo, con enfasi faustiana, «come il suo proprio esperimento» (Jongen).
Tuttavia su questo suolo, come avviene a primavera sui terreni abbandonati e pieni di detriti di città, i fili d’erba dell’esperienza umana elementare non cessano di spuntare di nuovo. Cosa dice questa esperienza? Dice - come affermava Karol Wojtyla - che le relazioni, ed in modo particolare le relazioni primarie uomo/donna, individuo/comunità, sono imprescindibili per la crescita del soggetto e per l’insorgere della sua autocoscienza. L’io è relazionale, comunionale. E lo mostra molto bene il senso della nascita la cui insostituibile decisività è ben suggerita da Hölderlin nella poesia “Il Reno”: «Il più lo può la nascita ed il raggio di luce che al neonato va incontro».
La nascita, infatti, non è solo un fatto biologico ma, come genialmente affermava Giovanni Paolo II, è anzitutto genealogia. Quindi non è solo inizio ma è soprattutto origine. Pronunciando le sue prime parole il bambino non fa altro che dare testimonianza alla promessa contenuta nelle relazioni primarie con il padre e con la madre che indicano l’origine che lo precede e lo inoltra nella vita. Non si dà autogenerazione.
La genealogia di Gesù, con cui si apre il Vangelo di Matteo, esprime assai bene questo dinamismo che alla fine implica l’azione stessa del Dio creatore. Tra l’altro la dimenticanza del senso integrale della nascita come origine è alla radice del grave vuoto educativo che sta minando le odierne società multietniche. La catena delle generazioni rischia di spezzarsi per la fatica del “prendersi cura” attraverso la tradizione del significato del vivere.

(1-Continua)

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