sabato 21 novembre 2009

SPECIALE ENCICLICA "CARITAS IN VERITATE" - VITA, FAMIGLIA E SVILUPPO: L'UNITA' ANTROPOLOGICA DELL'ENCICLICA / 2 (75.ESIMA PARTE)

29 ottobre 2009
Tratto da ZENIT.org

Continua la pubblicazione dell'articolo di David L. Schindler, Preside dell'Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia di Washington, apparso nell'ultimo "Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa" (V (2009) 93-97) dell'Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân, dedicato alla "Caritas in veritate” di Benedetto XVI.

CAPITOLO II.
L’idea dell’umanità come un’unica famiglia, del matrimonio, della famiglia e dei temi della vita svolgono un ruolo importante per fondare i principi di gratuità e relazione e per dare loro una configurazione originale, assieme alla logica della libertà e dei diritti che è contenuta nel bene comune, come accenniamo qui di seguito.
(1) Prima di tutto Benedetto afferma che «Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia» (n. 53); e che «La rivelazione cristiana sull'unità del genere umano presuppone un'interpretazione metafisica dell'humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale» (55).
(1.1) L’idea che tutti gli esseri umani formino una sola famiglia deriva dalla comune origine nel Creatore. L’unità implicata in questa idea non soffoca le identità delle persone, piuttosto la rende trasparenti l’una all’altra dentro la loro legittima diversità. Le due persone che diventano “una carne” nel matrimonio ci danno il senso di come possa essere così, come fa del resto la Rivelazione stessa, con la sua concezione di Dio come Trinità di Persone nell’unità dell’unica Sostanza divina (n. 54).
L’idea di una sola famiglia che deriva dalla comune relazione con il Creatore suggerisce ulteriori riflessioni prese dall’antropologia teologica di Joseph Ratzinger/Papa Benedetto e da Giovanni Paolo II: soprattutto in relazione all’idea di filialità, nel primo, e alla “originaria solitudine” dell’uomo, nel secondo. La Caritas in veritate mette in evidenza l’amore che è prima di tutto ricevuto da parte nostra, non prodotto da noi. Già nel suo commento all’antropologia della Gaudium et spes Ratzinger metteva in evidenza la capacità di pregare come il primo contenuto della immagine umana di Dio. Capita così perché gli esseri umani sono fondamentalmente “figli nel Figlio”: sono immagini di Dio in e mediante Gesù Cristo, che è Dio precisamente come il Logos che è dal e per il Padre (cf. Col 1:15-18); oppure, come Ratzinger dice altrove, «il centro della Persona di Gesù è preghiera»9 . Allo stesso modo, Giovanni Paolo II afferma il primato dell’uomo nella sua “originaria solitudine”, espressione con cui egli intende che la relazionalità dell’uomo comincia radicalmente in questa “solitudine” davanti Dio. Il punto allora è non che l’uomo è originariamente privo di relazioni, ma che la relazionalità umana, il suo originario essere-con, è un essere-con-Dio prima di essere un essere-con-gli-altri. O meglio: l’umano essere-con-Dio, in quanto creatura, è prima un essere-da, come un bambino che partecipa all’essere solo come il frutto della radicale generosità di Colui Che E’.
In questa relazione filiale associata alla famiglia troviamo il senso profondo della categoria della relazione come dono, veramente centrale nell’enciclica. Una volta colta la radicalità di questa relazione, che ha origine in Dio Creatore, si vede che essa deve comprendere non solo tutti gli esseri umani, anche se essi in modo speciale e più proprio, ma tutte le creature come pure le entità naturali e fisico-biologiche del cosmo. Benedetto infatti dice che «La natura è espressione di un disegno di amore e di verità» (n. 48). Essa ci precede […] e ci parla del Creatore (cf. Rom 1:20) e del suo amore per l’umanità. Essa è destinata ad essere “ricapitolata” in Cristo alla fine dei tempi (cf. Eph 1:9-10; Col 1: 19-20). E’ quindi una “vocazione”10 . La natura ci è data ... come un dono del Creatore, che le ha conferito un ordine e ha reso l’uomo capace di ricavare da esso i principi necessari perché la “coltivasse e la custodisse’”(Gen 2:15). Possiamo dire che la natura, in senso analogico e con l’aiuto dell’uomo, partecipi alla preghiera costitutiva della creatura nel suo intimo movimento filiale verso il Creatore.
Altre implicazioni della filialità: insegniamo ai bambini di dire “per favore” e “grazie”. Correttamente inteso, questo non è solo una questione di buone maniere. Al contrario, si tratta di insegnare loro chi e cosa sono nella loro profonda realtà: doni di Dio concepiti per essere grati, per agire con gratuito stupore, in risposta a quanto è stato loro dato in dono. Qui sta l’origine del riconoscimento dell’essere come vero, buono e bello – in quanto ricevuto e non semplicemente in quanto fatto come frutto del produrre umano – che deve essere alla base di ogni sana società umana. Qui trova fondamento la richiesta dell’enciclica di nuovi stili di vita incentrati nella ricerca della verità, della bellezza, della bontà e della comunione con gli altri (cf. n. 51).
(1.2) Naturalmente i bambini sono fratelli e sorelle di Dio solo attraverso il papà e la mamma naturali, e il bambino stesso ha l’attitudine per diventare papà o mamma. Inoltre, la gratuità dell’unione tra il padre e la madre è un segno continuo ed espressione della generosità creativa di Dio. Ratzinger, nel suo commento alla Gaudium et spes, parla di questa comunione sponsale tra un uomo e una donna come l’immediata conseguenza (Folge) del contenuto (Inhalt) dell’umana immagine di Dio che è presente nell’”unitario” essere dell’uomo come figlio di Dio 11. Giovanni Paolo II parla di questa attitudine costitutiva per la gratuità dell’unione sponsale come la “unità originaria” dell’uomo e della donna. Questa attitudine per l’unione sponsale, stabilita dapprima in questa comune relazione filiale con Dio dell’uomo e della donna, è costitutiva dell’essere umano12 . Ogni essere umano è membro dell’unica famiglia di creature di Dio, in e mediante l’appartenenza ad una particolare genealogia familiare. Questo è il fondamento della richiesta dell’enciclica che lo Stato promuova «la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale» (n. 44).
(1.3) Le implicazioni della costitutiva relazionalità affermata nella Caritas in veritate sono di grande importanza: nessuna relazione dell’uomo nel corso della sua vita è solo contrattuale, o semplicemente il frutto di un originario ed indifferente atto di scelta (come nel “contrattualismo” liberale). L’uomo non è mai “solo”, ossia, nel linguaggio della Caritas in veritate, “isolato” (n. 53). Al contrario, il suo essere è sempre un essere-con.
Da cui, relativamente alla libertà umana: la libertà è un atto di scelta solo se già dentro un ordine di relazioni naturalmente date (cf. n. 68) con Dio, la famiglia, gli altri e la natura. E riguardo ai diritti umani: come l’idea giuridica dei diritti presuppone un’idea contrattualistica della verità, così un’idea di diritti fondati su un ordine vero presuppone una concezione relazionale dell’io. Come l’idea contrattualistica comporta una priorità dei diritti sui doveri, così l’idea relazionale comporta la priorità dei doveri sui diritti, sebbene i diritti rimangano incondizionatamente coincidenti con la interiore responsabilità (cf n. 43). I diritti, in altri termini, appartengono ad ogni uomo, ma nessuno è un agente solitario astratto da ogni relazione. Al contrario, l’uomo è sempre e ovunque intimamente ordinato a Dio e agli altri, è un bambino nato in una famiglia, è sessualmente differenziato e adatto per la paternità o la maternità, ed è intrinsecamente correlato con l’umanità intera e con la natura. Una idea adeguata dei diritti deve tenere conto di questo ordine di relazioni che sono costitutive di ogni uomo.
(2) La Caritas in veritate afferma che l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI è «molto importante per delineare il senso pienamente umano dello sviluppo proposto dalla Chiesa» (n. 15). La Humanae vitae indica «i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale, inaugurando una tematica magisteriale che ha via via preso corpo in vari documenti, da ultimo nell'Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II» (n. 15).
(2.1) In relazione con le affermazioni della Humanae vitae sul significato procreativo e unitivo della sessualità, il papa stabilisce “a fondamento della società la coppia degli sposi aperta alla vita (n. 15). Egli suggerisce che la tendenza a rendere artificiale la concezione e la gestazione umana contribuisce alla perdita del «concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale» (n. 51). Il punto qui, sebbene non esplicitamente sviluppato nella Caritas in veritate, è che la Humanae vitae, nella sua affermazione dell’unità del significato personale ed unitivo della sessualità, implica una “nuova” comprensione del corpo come espressione di un ordine obiettivo di amore, in coerenza con la concezione della Caritas in veritate che la natura del cosmo fisico-biologico come un tutto “è espressione di un disegno di amore” (n. 48).
(2.2) Circa la relazione tra vita etica ed etica sociale, il Papa osserva l’assurdità delle società che, affermando la dignità della persona, la giustizia e la pace, tollerano poi la violazione della vita umana nei più deboli ed emarginati (n. 15). Egli sostiene che «L'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo» (n. 28), e che dobbiamo allargare il nostro concetto di povertà e di sottosviluppo tenendo conto di questa questione dell’apertura alla vita. E’ proprio in questo crescente dominio tecnico sul’origine della vita umana, come, per esempio, nella fecondazione in vitro, nella distruzione di embrioni umani per la ricerca e nella possibilità di fabbricare cloni umani ed ibridi, che constatiamo “la più evidente espressione” della supremazia della tecnica nella società contemporanea (n. 75).
La Caritas in veritate affronta la complessa questione della tecnica nell’ultimo capitolo. «La tecnica permette di dominare la materia» e di «migliorare le condizioni di vita» e così «risponde alla stessa vocazione del lavoro umano» (n. 69). L’aspetto rilevante, in ogni caso, è che «la tecnica non è mai solo tecnica» (n. 69). Essa rimanda sempre al senso dell’ordine delle relazioni con Dio e con gli altri che sono date naturalmente all’uomo. La tecnica, intesa correttamente, deve essere inserita dentro la vocazione implicita in questo ordine di relazioni (cf. n. 69): integrate nell’dea di creazione come qualcosa che è stato deato allì’uomo come un dono e non come qualcosa di autogeneratosi (cf n. 68) o prodotto dall’uomo.
Vediamo qui nuovamente l’importanza della famiglia. E’ in famiglia che si apprende una “tecnica” che rispetti la dignità dei più deboli e vulnerabili – per esempio i bambini concepiti e i malati terminali – per amore. E’ nella famiglia - e infatti la famiglia è ordinate alla preghiera - che si assumono le abitudini per una calma interiorità necessaria per relazioni autentiche e che ci permettano di vedere la verità, il bene e la bellezza negli altri come un dono ricevuto (ed anche per mantenere la consapevolezza «della consistenza ontologica dell’anima umana, con le profondità che i santi hanno saputo scandagliare» - n. 76). E’ all’interno della famiglia che possiamo apprendere i limiti dei mezzi di comunicazione sociale dominanti animati dalla tecnica, che inducono sensazioni superficiali e la semplice raccolta di informazioni, mentre provocano disattenzione dell’uomo per le sue profondità e la sua trascendenza in quanto creato da Dio. E’ nella famiglia che noi ci apriamo al significato della comunicazione nella sua più profonda ed ultima realtà come dia-logos di amore rivelato da Dio nella vita di Gesù Cristo, compresa la sofferenza, (cf. n. 4).
Alla luce di tutto questo, possiamo comprendere, in conclusione, perché la Caritas in veritate affermi che oggi la questione sociale «è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75); che «Il problema dello sviluppo è strettamente collegato anche alla nostra concezione dell'anima dell'uomo» (n. 76); e che «Solo un umanesimo aperto all'Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile - nell'ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell'ethos […]» (78).
(Traduzione dall’Inglese di Benedetta Cortese)
NOTE
1) Paolo VI, Populorum progressio (26 March 1967), n. 16.
2) Ibid.
3) Paolo VI, Discorso all’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965, n. 3.
4) T. Card. Bertone, Discorso al Senato della Repubblica italiana, 28 luglio 2009 (http://www.vatican.va/roman_curia/secretariat_state/card-bertone/2009/documents/rc_seg-st_20090728_visita-senato_it.html).
5) Ibid, p. 4.
6) J. Ratzinger, Values in a Time of Upheaval, traduzione di B. McNeil, Crossroad/Ignatius Press, New York/San Francisco 2006, p. 92.
7) Catechismo della Chiesa Cattolica, Seconda edizione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, nn. 31-38. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 109.
8) Sul bene comune come fine dello Stato vedi CCC, 1910. Sulle implicazioni della visione dell’uomo per lo Stato vedi CCC, 2244.
9) J. Ratzinger, Behold the Pierced One, traduzione di G. Harrison, Ignatius Press, San Francisco 1986, p. 25.
10) Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, n. 6.
11) J. Ratzinger, “Erster Hauptteil: Kommentar zum I,” in Lexikon für Theologie und Kirche 14: Das Zweite Vatikanische Konzil, vol. 3, ed. H. Vorgrimler et al., Herder and Herder, Fribourg: 1968, Artikel 12.
12) Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, nn. 37, 110 e 147.

(2-FINE)

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