padre Raniero Cantalamessa
11 dicembre 2009
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione del testo della seconda meditazione d'Avvento che il Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto lo scorso venerdì alla presenza di Benedetto XVI e della Famiglia pontificia nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico.
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione del testo della seconda meditazione d'Avvento che il Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto lo scorso venerdì alla presenza di Benedetto XVI e della Famiglia pontificia nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico.
Il tema delle meditazioni di quest'anno è: “Ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Corinzi 4, 1).
La prima Predica è stata tenuta il 4 dicembre. La prossima sarà il 18 dicembre.
3. L’unzione spirituale
C’è un rischio, che è comune a tutti i sacramenti: quello di fermarsi all’aspetto rituale e canonico dell’ordinazione, alla sua validità e liceità, e non dare abbastanza importanza alla “res sacramenti”, all’effetto spirituale, alla grazia propria del sacramento, in questo caso al frutto dell’unzione nella vita del sacerdote. L’unzione sacramentale ci abilita a compiere certe azioni sacre, come governare, predicare, istruire; ci dà, per così dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non necessariamente l’autorità nel farle; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico!
L’unzione sacramentale, con il carattere indelebile (il “sigillo”!) che imprime nel sacerdote, è una risorsa dalla quale possiamo attingere ogni volta che ne sentiamo il bisogno, che possiamo, per così dire, attivare in ogni momento del nostro ministero. Si attua anche qui quella che in teologia si chiama la “reviviscenza” del sacramento. Il sacramento, ricevuto in passato, “reviviscit”, torna a rivivere e a sprigionare la sua grazia: nei casi estremi perché viene tolto l’ostacolo del peccato (l’obex), in altri casi perché viene rimossa la patina dell’abitudine e si intensifica la fede nel sacramento. Succede come con un flacone di profumo. Noi possiamo tenerlo in tasca o stringerlo nella mano finché vogliamo, ma se non lo apriamo il profumo non si effonde, è come se non ci fosse.
Come è nata questa idea di una unzione attuale? Una tappa importante è costituita, ancora una volta, da Agostino. Egli interpreta il testo della prima lettera di Giovanni: “Voi avete ricevuto l’unzione…” (1 Gv 2, 27), nel senso di un’unzione continua, grazie alla quale lo Spirito Santo, maestro interiore, ci permette di comprendere dentro ciò che ascoltiamo all’esterno. A lui risale l’espressione “unzione spirituale”, spiritalis unctio, accolta nell’inno Veni creator[4]. San Gregorio Magno, come in molte altre cose, contribuì a rendere popolare, per tutto il medio evo, questa intuizione agostiniana [5].
Una nuova fase nello sviluppo del tema dell’unzione si apre con san Bernardo e san Bonaventura. Con essi si afferma la nuova accezione, spirituale e moderna di unzione, non legata tanto al tema della conoscenza della verità, quanto a quello dell’esperienza della realtà divina. Iniziando a commentare il Cantico dei cantici, san Bernardo dice: “Un siffatto cantico, solo l’unzione lo insegna, solo l‘esperienza lo fa comprendere” [6]. San Bonaventura identifica l’unzione con la devozione, concepita da lui come “un sentimento soave d’amore verso Dio suscitato dal ricordo dei benefici di Cristo”[7]. Essa non dipende dalla natura, né dalla scienza, né dalle parole o dai libri, ma “dal dono di Dio che è lo Spirito Santo”[8].
Ai nostri giorni, si usano sempre più spesso i termini unto e unzione (anointed, anointing) per descrivere l’agire di una persona, la qualità di un discorso, di una predica, ma con una differenza di accento. Nel linguaggio tradizionale, l’unzione suggerisce, come si è visto, soprattutto l’idea di soavità e dolcezza, tanto da dar luogo, nell’uso profano, all’accezione negativa di “eloquio o atteggiamento mellifluo e insinuante, spesso ipocrita”, e all’aggettivo “untuoso”, nel senso di “persona o atteggiamento sgradevolmente cerimonioso e servile”.
Nell’uso moderno, più vicino a quello biblico, essa suggerisce piuttosto l’idea di potere e forza di persuasione. Una predica piena di unzione è una predica in cui si percepisce, per così dire, il fremito dello Spirito; un annuncio che scuote, che convince di peccato, che arriva al cuore della gente. Si tratta di una componente squisitamente biblica del termine, presente per esempio nel testo degli Atti, in cui si dice che Gesù “fu unto in Spirito e potenza” (At 10, 38).
L’unzione, in questa accezione, appare più un atto che uno stato. È qualcosa che la persona non possiede stabilmente, ma che sopraggiunge su di essa, la “investe” sul momento, nell’esercizio di un certo ministero o nella preghiera.
Se l’unzione è data dalla presenza dello Spirito ed è dono suo, che possiamo fare noi per averla? Anzitutto pregare. C’è una promessa esplicita di Gesù: “Il Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Poi rompere anche noi il vaso di alabastro come la peccatrice in casa di Simone. Il vaso è il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa rinnegare se stessi, cedere a Dio, con un atto esplicito, le redini della nostra vita. Dio non può consegnare il suo Spirito a chi non si consegna interamente a lui.
4. Come ottenere l’unzione dello Spirito
Applichiamo alla vita del sacerdote questo ricchissimo contenuto biblico e teologico legato al tema dell’unzione. San Basilio dice che lo Spirito Santo “fu sempre presente nella vita del Signore, divenendone l’unzione e il compagno inseparabile”, così che “tutta l’attività di Cristo si svolse nello Spirito”[9]. Avere l’unzione significa, dunque, avere lo Spirito Santo come “compagno inseparabile” nella vita, fare tutto “nello Spirito”, alla sua presenza, con la sua guida. Essa comporta una certa passività, un essere agiti, mossi, o, come dice Paolo, un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (cf. Gal 5,18).
Tutto questo si traduce, all’esterno, ora in soavità, calma, pace, dolcezza, devozione, commozione, ora in autorità, forza, potere, autorevolezza, a seconda delle circostanze, del carattere di ognuno e anche dell’ufficio che ricopre. L’esempio vivente è Gesù che, mosso dallo Spirito, si manifesta come dolce e umile di cuore, ma anche, all’occorrenza, pieno di soprannaturale autorità. È una condizione caratterizzata da una certa luminosità interiore che dà facilità e padronanza nel fare le cose. Un po’ come è la “forma” per l’atleta e l’ispirazione per il poeta: uno stato in cui si riesce a dare il meglio di sé.
Noi sacerdoti dovremmo abituarci a chiedere l’unzione dello Spirito prima di accingerci a un’azione importante a servizio del regno: una decisione da prendere, una nomina da fare, un documento da scrivere, una commissione da presiedere, una predica da preparare. Io l’ho appreso a mie spese. Mi sono trovato a volte a dover parlare a un vasto uditorio, in una lingua straniera, magari appena arrivato da un lungo viaggio. Buio totale. La lingua in cui dovevo parlare mi sembrava di non averla mai conosciuta, incapacità di concentrarmi su uno schema, un tema. E il canto iniziale stava per finire…Allora mi sono ricordato dell’unzione e in fretta ho fatto una breve preghiera: “Padre, nel nome di Cristo, ti chiedo l’unzione dello Spirito!”
A volte, l’effetto è immediato. Si sperimenta quasi fisicamente la venuta su di sé dell’unzione. Una certa commozione attraversa il corpo, chiarezza nella mente, serenità nell’anima; scompare la stanchezza, il nervosismo, ogni paura e ogni timidezza; si sperimenta qualcosa della calma e dell’autorità stessa di Dio.
Molte mie preghiere, come, penso, quelle di ogni cristiano, sono rimaste inascoltate, quasi mai però questa per l’unzione. Pare che davanti a Dio abbiamo una specie di diritto di reclamarla. In seguito ho speculato anche un po’ su questa possibilità. Per esempio, se devo parlare di Gesù Cristo faccio un’alleanza segreta con Dio Padre, senza farlo sapere a Gesù, e dico: “Padre, devo parlare del tuo Figlio Gesù che ami tanto: dammi l’unzione del tuo Spirito per arrivare al cuore della gente”. Se devo parlare di Dio Padre, il contrario: faccio un’intesa segreta con Gesù…La dottrina della Trinità è meravigliosa anche per questo.
C’è un rischio, che è comune a tutti i sacramenti: quello di fermarsi all’aspetto rituale e canonico dell’ordinazione, alla sua validità e liceità, e non dare abbastanza importanza alla “res sacramenti”, all’effetto spirituale, alla grazia propria del sacramento, in questo caso al frutto dell’unzione nella vita del sacerdote. L’unzione sacramentale ci abilita a compiere certe azioni sacre, come governare, predicare, istruire; ci dà, per così dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non necessariamente l’autorità nel farle; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico!
L’unzione sacramentale, con il carattere indelebile (il “sigillo”!) che imprime nel sacerdote, è una risorsa dalla quale possiamo attingere ogni volta che ne sentiamo il bisogno, che possiamo, per così dire, attivare in ogni momento del nostro ministero. Si attua anche qui quella che in teologia si chiama la “reviviscenza” del sacramento. Il sacramento, ricevuto in passato, “reviviscit”, torna a rivivere e a sprigionare la sua grazia: nei casi estremi perché viene tolto l’ostacolo del peccato (l’obex), in altri casi perché viene rimossa la patina dell’abitudine e si intensifica la fede nel sacramento. Succede come con un flacone di profumo. Noi possiamo tenerlo in tasca o stringerlo nella mano finché vogliamo, ma se non lo apriamo il profumo non si effonde, è come se non ci fosse.
Come è nata questa idea di una unzione attuale? Una tappa importante è costituita, ancora una volta, da Agostino. Egli interpreta il testo della prima lettera di Giovanni: “Voi avete ricevuto l’unzione…” (1 Gv 2, 27), nel senso di un’unzione continua, grazie alla quale lo Spirito Santo, maestro interiore, ci permette di comprendere dentro ciò che ascoltiamo all’esterno. A lui risale l’espressione “unzione spirituale”, spiritalis unctio, accolta nell’inno Veni creator[4]. San Gregorio Magno, come in molte altre cose, contribuì a rendere popolare, per tutto il medio evo, questa intuizione agostiniana [5].
Una nuova fase nello sviluppo del tema dell’unzione si apre con san Bernardo e san Bonaventura. Con essi si afferma la nuova accezione, spirituale e moderna di unzione, non legata tanto al tema della conoscenza della verità, quanto a quello dell’esperienza della realtà divina. Iniziando a commentare il Cantico dei cantici, san Bernardo dice: “Un siffatto cantico, solo l’unzione lo insegna, solo l‘esperienza lo fa comprendere” [6]. San Bonaventura identifica l’unzione con la devozione, concepita da lui come “un sentimento soave d’amore verso Dio suscitato dal ricordo dei benefici di Cristo”[7]. Essa non dipende dalla natura, né dalla scienza, né dalle parole o dai libri, ma “dal dono di Dio che è lo Spirito Santo”[8].
Ai nostri giorni, si usano sempre più spesso i termini unto e unzione (anointed, anointing) per descrivere l’agire di una persona, la qualità di un discorso, di una predica, ma con una differenza di accento. Nel linguaggio tradizionale, l’unzione suggerisce, come si è visto, soprattutto l’idea di soavità e dolcezza, tanto da dar luogo, nell’uso profano, all’accezione negativa di “eloquio o atteggiamento mellifluo e insinuante, spesso ipocrita”, e all’aggettivo “untuoso”, nel senso di “persona o atteggiamento sgradevolmente cerimonioso e servile”.
Nell’uso moderno, più vicino a quello biblico, essa suggerisce piuttosto l’idea di potere e forza di persuasione. Una predica piena di unzione è una predica in cui si percepisce, per così dire, il fremito dello Spirito; un annuncio che scuote, che convince di peccato, che arriva al cuore della gente. Si tratta di una componente squisitamente biblica del termine, presente per esempio nel testo degli Atti, in cui si dice che Gesù “fu unto in Spirito e potenza” (At 10, 38).
L’unzione, in questa accezione, appare più un atto che uno stato. È qualcosa che la persona non possiede stabilmente, ma che sopraggiunge su di essa, la “investe” sul momento, nell’esercizio di un certo ministero o nella preghiera.
Se l’unzione è data dalla presenza dello Spirito ed è dono suo, che possiamo fare noi per averla? Anzitutto pregare. C’è una promessa esplicita di Gesù: “Il Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Poi rompere anche noi il vaso di alabastro come la peccatrice in casa di Simone. Il vaso è il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa rinnegare se stessi, cedere a Dio, con un atto esplicito, le redini della nostra vita. Dio non può consegnare il suo Spirito a chi non si consegna interamente a lui.
4. Come ottenere l’unzione dello Spirito
Applichiamo alla vita del sacerdote questo ricchissimo contenuto biblico e teologico legato al tema dell’unzione. San Basilio dice che lo Spirito Santo “fu sempre presente nella vita del Signore, divenendone l’unzione e il compagno inseparabile”, così che “tutta l’attività di Cristo si svolse nello Spirito”[9]. Avere l’unzione significa, dunque, avere lo Spirito Santo come “compagno inseparabile” nella vita, fare tutto “nello Spirito”, alla sua presenza, con la sua guida. Essa comporta una certa passività, un essere agiti, mossi, o, come dice Paolo, un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (cf. Gal 5,18).
Tutto questo si traduce, all’esterno, ora in soavità, calma, pace, dolcezza, devozione, commozione, ora in autorità, forza, potere, autorevolezza, a seconda delle circostanze, del carattere di ognuno e anche dell’ufficio che ricopre. L’esempio vivente è Gesù che, mosso dallo Spirito, si manifesta come dolce e umile di cuore, ma anche, all’occorrenza, pieno di soprannaturale autorità. È una condizione caratterizzata da una certa luminosità interiore che dà facilità e padronanza nel fare le cose. Un po’ come è la “forma” per l’atleta e l’ispirazione per il poeta: uno stato in cui si riesce a dare il meglio di sé.
Noi sacerdoti dovremmo abituarci a chiedere l’unzione dello Spirito prima di accingerci a un’azione importante a servizio del regno: una decisione da prendere, una nomina da fare, un documento da scrivere, una commissione da presiedere, una predica da preparare. Io l’ho appreso a mie spese. Mi sono trovato a volte a dover parlare a un vasto uditorio, in una lingua straniera, magari appena arrivato da un lungo viaggio. Buio totale. La lingua in cui dovevo parlare mi sembrava di non averla mai conosciuta, incapacità di concentrarmi su uno schema, un tema. E il canto iniziale stava per finire…Allora mi sono ricordato dell’unzione e in fretta ho fatto una breve preghiera: “Padre, nel nome di Cristo, ti chiedo l’unzione dello Spirito!”
A volte, l’effetto è immediato. Si sperimenta quasi fisicamente la venuta su di sé dell’unzione. Una certa commozione attraversa il corpo, chiarezza nella mente, serenità nell’anima; scompare la stanchezza, il nervosismo, ogni paura e ogni timidezza; si sperimenta qualcosa della calma e dell’autorità stessa di Dio.
Molte mie preghiere, come, penso, quelle di ogni cristiano, sono rimaste inascoltate, quasi mai però questa per l’unzione. Pare che davanti a Dio abbiamo una specie di diritto di reclamarla. In seguito ho speculato anche un po’ su questa possibilità. Per esempio, se devo parlare di Gesù Cristo faccio un’alleanza segreta con Dio Padre, senza farlo sapere a Gesù, e dico: “Padre, devo parlare del tuo Figlio Gesù che ami tanto: dammi l’unzione del tuo Spirito per arrivare al cuore della gente”. Se devo parlare di Dio Padre, il contrario: faccio un’intesa segreta con Gesù…La dottrina della Trinità è meravigliosa anche per questo.
(2-Continua)
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