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24 ottobre 2009
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione del discorso pronunciato il 5 ottobre scorso dall’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo a Vicenza a un incontro promosso dalla Fondazione Migrantes diocesana.
4. Riguardo agli altri immigrati
Ci sono, comunque, altri tipi di emigrazione, più numerosi e anche più dolorosi, perché non si tratta del caso di persone in fondo privilegiate, ricercate da datori di lavoro che necessitano di conoscenze e capacità professionali o tecnologiche non facilmente reperibile in loco. Anche questi altri tipi di migranti sono necessari perché essi sono pronti a svolgere mansioni che i locali non vogliono più eseguire. Il Paese di arrivo è affollato dunque di immigrati i cui Paesi di provenienza non sono più in grado di assorbirli nel proprio mercato del lavoro, e che cercano migliori opportunità di vita, inseguendo magari un sogno che si scontrerà con dure realtà.
E che dire di coloro che sono fuggiti dalla terra natia a causa di guerre, violenze, o persecuzioni per motivi politici, etnici, religiosi o per le loro convinzioni? O di chi si è allontanato da catastrofi ambientali naturali o provocate dall’uomo?
“Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori” (N. 62), scrive Benedetto XVI. E purtroppo sofferenze e disagi non finiscono una volta varcato quel confine che nella mente dell’emigrato rappresenta l’inizio di una nuova vita; fortunatamente peraltro molte volte anche le aspirazioni perdurano. E per chi è cristiano dolori e aspirazioni possono essere occasioni che nutrono la speranza, “una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale” (N. 34).
5. Integrazione, ma non assimilazione
Vivere in una società diversa dalla propria presenta una vera sfida per l’immigrato, che si trova davanti ad una questione scottante, che potrebbe anche disorientare: l’integrazione (cfr. sempre il N. 62).
Quando si parla di integrazione significa che l’immigrato deve adattarsi al modello di vita locale, fino a diventare una copia dell’autoctono, trascurando le proprie legittime radici culturali? In realtà, se così fosse, verrebbe assimilato e non integrato. I giovani immigrati - del resto - potrebbero essere forse più attratti immediatamente da questo tipo di “inserimento”, anche se non sempre.10 Il problema è che tale assimilazione rappresenta in fondo un impoverimento anche delle società d’accoglienza, perché il contributo culturale e umano dell’immigrato alla società che lo ospita è in tal modo minimizzato se non annullato. Senz’altro i migranti devono fare i passi necessari per essere inclusi socialmente nel luogo di destino, ma tale processo deve rispettare l’eredità culturale che ognuno porta con sé.11
All’estremo opposto, può accadere invece, che, trovandosi in un nuovo ambiente, l’immigrato prenda consapevolezza della propria identità, forse mai sperimentato prima con tale intensità. Così egli cerca compagnia e sicurezza tra coloro che provengono dalla medesima nazione e cultura. Se egli però non si apre alla realtà più vasta della società d’approdo, corre il pericolo di formare, insieme agli altri suoi simili, un ghetto, con relativa emarginazione.
Giovanni Paolo II, nel suo ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (2005), ribadì la definizione utilizzata dall’EMCC, che non opta per l’integrazione come “assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il ‘segreto’, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza di ciascuno. E’ un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini. Il migrante, in tale processo, è impegnato a compiere i passi necessari all’inclusione sociale, quali l’apprendimento della lingua nazionale e il proprio adeguamento alle leggi e alle esigenze del lavoro, così da evitare il crearsi di una differenziazione esasperata”.12
Occorre però ricordare che l’integrazione non è una strada a senso unico, non è cammino da percorrere solo dall’immigrato, ma anche dalla società di arrivo, che, a contatto con lui, scopre la sua “ricchezza”, cogliendone i valori della cultura.13 La vera integrazione quindi si realizza là dove l’interazione tra gli immigrati e la popolazione autoctona non si limita al solo campo economico-sociale, ma si attua in pienezza, comprendendo anche quello culturale. Ambedue le parti, comunque, devono essere disposte a farlo, giacché motore dell’integrazione è il dialogo, e ciò presuppone un rapporto reciproco.14
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione del discorso pronunciato il 5 ottobre scorso dall’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo a Vicenza a un incontro promosso dalla Fondazione Migrantes diocesana.
4. Riguardo agli altri immigrati
Ci sono, comunque, altri tipi di emigrazione, più numerosi e anche più dolorosi, perché non si tratta del caso di persone in fondo privilegiate, ricercate da datori di lavoro che necessitano di conoscenze e capacità professionali o tecnologiche non facilmente reperibile in loco. Anche questi altri tipi di migranti sono necessari perché essi sono pronti a svolgere mansioni che i locali non vogliono più eseguire. Il Paese di arrivo è affollato dunque di immigrati i cui Paesi di provenienza non sono più in grado di assorbirli nel proprio mercato del lavoro, e che cercano migliori opportunità di vita, inseguendo magari un sogno che si scontrerà con dure realtà.
E che dire di coloro che sono fuggiti dalla terra natia a causa di guerre, violenze, o persecuzioni per motivi politici, etnici, religiosi o per le loro convinzioni? O di chi si è allontanato da catastrofi ambientali naturali o provocate dall’uomo?
“Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori” (N. 62), scrive Benedetto XVI. E purtroppo sofferenze e disagi non finiscono una volta varcato quel confine che nella mente dell’emigrato rappresenta l’inizio di una nuova vita; fortunatamente peraltro molte volte anche le aspirazioni perdurano. E per chi è cristiano dolori e aspirazioni possono essere occasioni che nutrono la speranza, “una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale” (N. 34).
5. Integrazione, ma non assimilazione
Vivere in una società diversa dalla propria presenta una vera sfida per l’immigrato, che si trova davanti ad una questione scottante, che potrebbe anche disorientare: l’integrazione (cfr. sempre il N. 62).
Quando si parla di integrazione significa che l’immigrato deve adattarsi al modello di vita locale, fino a diventare una copia dell’autoctono, trascurando le proprie legittime radici culturali? In realtà, se così fosse, verrebbe assimilato e non integrato. I giovani immigrati - del resto - potrebbero essere forse più attratti immediatamente da questo tipo di “inserimento”, anche se non sempre.10 Il problema è che tale assimilazione rappresenta in fondo un impoverimento anche delle società d’accoglienza, perché il contributo culturale e umano dell’immigrato alla società che lo ospita è in tal modo minimizzato se non annullato. Senz’altro i migranti devono fare i passi necessari per essere inclusi socialmente nel luogo di destino, ma tale processo deve rispettare l’eredità culturale che ognuno porta con sé.11
All’estremo opposto, può accadere invece, che, trovandosi in un nuovo ambiente, l’immigrato prenda consapevolezza della propria identità, forse mai sperimentato prima con tale intensità. Così egli cerca compagnia e sicurezza tra coloro che provengono dalla medesima nazione e cultura. Se egli però non si apre alla realtà più vasta della società d’approdo, corre il pericolo di formare, insieme agli altri suoi simili, un ghetto, con relativa emarginazione.
Giovanni Paolo II, nel suo ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (2005), ribadì la definizione utilizzata dall’EMCC, che non opta per l’integrazione come “assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il ‘segreto’, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza di ciascuno. E’ un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini. Il migrante, in tale processo, è impegnato a compiere i passi necessari all’inclusione sociale, quali l’apprendimento della lingua nazionale e il proprio adeguamento alle leggi e alle esigenze del lavoro, così da evitare il crearsi di una differenziazione esasperata”.12
Occorre però ricordare che l’integrazione non è una strada a senso unico, non è cammino da percorrere solo dall’immigrato, ma anche dalla società di arrivo, che, a contatto con lui, scopre la sua “ricchezza”, cogliendone i valori della cultura.13 La vera integrazione quindi si realizza là dove l’interazione tra gli immigrati e la popolazione autoctona non si limita al solo campo economico-sociale, ma si attua in pienezza, comprendendo anche quello culturale. Ambedue le parti, comunque, devono essere disposte a farlo, giacché motore dell’integrazione è il dialogo, e ciò presuppone un rapporto reciproco.14
(4-Continua)
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