19 dicembre 2009
Tratto da ZENIT.org
Ecco il discorso pronunciato l'11 dicembre da mons. Bruno Forte, Arcivesco di Chieti-Vasto, in occasione del convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.
1. Il Dio della fede biblica e l’“invenzione” della storia
Il Dio della Bibbia è il Dio della storia: interviene in essa, è riconosciuto ed amato a partire dalle meraviglie che vi compie e dalle parole che vi fa risuonare, esercita la sua signoria sulle vicende umane. “Dove altri percepirono solo un infinito silenzio, Israele udì una voce. Israele poté scoprire che il Dio unico è udibile e interpellabile, che va tra gli uomini dicendo Io e facendosi Tu per loro: un Tu che parla e a cui si può parlare”[1]. Il protagonista umano della storia è il suo interlocutore privilegiato: al vertice dell’opera dei sei giorni Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza. La storia intera, nel suo sviluppo, non sarà altro che un dialogo - accolto o rifiutato dall’uomo - fra il Signore dell’universo e gli abitatori del tempo. L’iniziativa sarà sempre di Dio: “La Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio che si occupa dell’uomo e di ciò che egli chiede” [2]. Più che dirci ciò che gli uomini pensano del divino, ci testimonia ciò che Dio pensa degli uomini e della loro storia. All’uomo la dignità e l’onere della risposta: nella visione biblica la storia è desiderio e attesa, domanda e ascolto, ma anche bestemmia e scandalo della creatura davanti al suo Creatore e Signore.
Una gustosa leggenda rabbinica ci aiuta a comprendere quest’idea della storia come interrogazione e corrispondenza: essa narra che all’atto di creare il mondo l’Eterno convocò alla sua presenza le lettere dell’alfabeto, chiedendo chi di loro volesse essere la prima lettera del creato. Tutte fecero a gara proporsi, non diverse dagli umani. Sola restò in silenzio l’“aleph”, la più eterea e volatile fra le lettere dell’alfabeto ebraico, la più modesta. L’Eterno fece allora la sua scelta e chiamò la “beth” a iniziare l’opera del mondo, perché è la lettera con cui comincia ogni benedizione del Santo (“berakah”): perciò la prima parola della Torah è “berešit”, “in principio” (Genesi 1,1). La “beth” - inizio del creato - non è, però, che un quadrato aperto sul lato sinistro, nella direzione in cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che l’inizio non è compimento, ma domanda e attesa. Il racconto prosegue, perciò, mostrando come l’Eterno abbia voluto ricompensare la “aleph” per la sua umiltà, dandole il primo posto nel Decalogo: “Io sono il Signore Dio tuo”. La parola dell’eterno fondamento invisibile che viene ad affacciarsi nel tempo con la rivelazione comincia infatti con “io”, “anochì”, la cui iniziale è “aleph”[3]. Se dunque la storia dell’uomo e del mondo inizia con la “beth” ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo, la verità di Dio ci viene offerta solo a partire dall’“aleph”, con cui inizia l’“Io” della Sua sovrana auto-comunicazione. La storia è domanda aperta, a cui l’Eterno offre la misteriosa risposta dell’“aleph”, dell’umiltà della Sua rivelazione, della Sua chiamata e della Sua operosa presenza fra gli uomini[4].
Proprio così, è alla fede biblica che si deve l’“invenzione” della storia: dove altri colsero “l’eterno ritorno” dell’identico[5], i credenti del patto riconobbero un destino, l’appello a una patria intravista, anche se non posseduta. La storia non è l’infinita ripetizione del ciclo dei giorni e delle stagioni, portato a coscienza per esorcizzare il dolore e farne una semplice tappa dell’eterno ritorno, ma la risposta a una chiamata, l’andare verso una meta. L’uomo biblico sa che questo viaggio è suscitato e accompagnato dall’Altro, che non lascia mai solo il Suo interlocutore umano né è indifferente alla sua risposta. Come la sposa del Cantico, Dio è in cerca dell’uomo, lo chiama, percorre le notti per trovarlo e abbracciarlo. Il Dio della storia è un Dio che fa storia: la storia degli uomini è l’altra faccia della storia di Dio. Dio ha bisogno degli uomini e crede in essi, più di quanto essi credano in Lui. Dalla “preistoria della salvezza”, che è l’opera della creazione, all’alleanza con Noè e poi con Abramo, fino all’alleanza del Sinai e alla venuta del Messia, il tempo storico è anche tempo di Dio, spazio del Suo avvento, luogo della Sua promessa e delle Sue sorprese.
Fra queste, la più indeducibile e alta per la fede cristiana è l’incarnazione del Figlio, con la quale il Verbo viene a mettere le sue tende fra gli uomini e a farsi egli stesso protagonista di una storia pienamente umana. Nella vicenda di Gesù di Nazaret si compie così la rivelazione dell’uomo e della storia: “In realtà - afferma la Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II - solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”[6]. Nel suo culmine - la Pasqua - la storia del Figlio incarnato si offre come la “storia della storia”, denso compendio del destino di morte e resurrezione di ogni uomo e del mondo. Dio fa Sua la morte per dare a noi la vita: la storia è agli occhi della fede questa unità di morte e di vita a favore della vita.
Anche nella tradizione ebraica l’idea della “shekhinah” divina - il misterioso attendarsi di Dio in mezzo al Suo popolo - mostra come la storia possa essere fatta propria dall’Eterno per amore degli uomini: si tratta di una presenza così profonda e vicina da divenire condivisione del dolore e della gioia. Dice un commovente “midrash” della fine del IV secolo: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekhinah andò con loro. Andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekhinah… andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… furono in Edom ed essa era con loro… ma quando torneranno, la Shekhinah farà ritorno insieme a loro”[7]. Il Dio e Padre d’Israele è, dunque, tutt’altro che il Dio lontano che schiaccia l’uomo: è anzi il Dio di compassione e di tenerezza, che entra nella storia e la fa sua per operarvi le Sue meraviglie a favore degli uomini. Ecco perché l’incontro con questo Dio non si realizzerà mai fuggendo dalla storia, ma impegnandosi in essa: non l’eternizzazione del presente, ma lo storicizzarsi dell’Eterno è per la tradizione ebraico-cristiana la via della salvezza del mondo. Il Dio-con-noi, l’eterno Emanuele, Signore del tempo e della storia, è tale perché aiuta con la Sua grazia l’uomo a far lievitare il tempo verso l’eternità e a trasfigurare dall’interno la storia con l’anticipo della bellezza futura.
1. Il Dio della fede biblica e l’“invenzione” della storia
Il Dio della Bibbia è il Dio della storia: interviene in essa, è riconosciuto ed amato a partire dalle meraviglie che vi compie e dalle parole che vi fa risuonare, esercita la sua signoria sulle vicende umane. “Dove altri percepirono solo un infinito silenzio, Israele udì una voce. Israele poté scoprire che il Dio unico è udibile e interpellabile, che va tra gli uomini dicendo Io e facendosi Tu per loro: un Tu che parla e a cui si può parlare”[1]. Il protagonista umano della storia è il suo interlocutore privilegiato: al vertice dell’opera dei sei giorni Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza. La storia intera, nel suo sviluppo, non sarà altro che un dialogo - accolto o rifiutato dall’uomo - fra il Signore dell’universo e gli abitatori del tempo. L’iniziativa sarà sempre di Dio: “La Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio che si occupa dell’uomo e di ciò che egli chiede” [2]. Più che dirci ciò che gli uomini pensano del divino, ci testimonia ciò che Dio pensa degli uomini e della loro storia. All’uomo la dignità e l’onere della risposta: nella visione biblica la storia è desiderio e attesa, domanda e ascolto, ma anche bestemmia e scandalo della creatura davanti al suo Creatore e Signore.
Una gustosa leggenda rabbinica ci aiuta a comprendere quest’idea della storia come interrogazione e corrispondenza: essa narra che all’atto di creare il mondo l’Eterno convocò alla sua presenza le lettere dell’alfabeto, chiedendo chi di loro volesse essere la prima lettera del creato. Tutte fecero a gara proporsi, non diverse dagli umani. Sola restò in silenzio l’“aleph”, la più eterea e volatile fra le lettere dell’alfabeto ebraico, la più modesta. L’Eterno fece allora la sua scelta e chiamò la “beth” a iniziare l’opera del mondo, perché è la lettera con cui comincia ogni benedizione del Santo (“berakah”): perciò la prima parola della Torah è “berešit”, “in principio” (Genesi 1,1). La “beth” - inizio del creato - non è, però, che un quadrato aperto sul lato sinistro, nella direzione in cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che l’inizio non è compimento, ma domanda e attesa. Il racconto prosegue, perciò, mostrando come l’Eterno abbia voluto ricompensare la “aleph” per la sua umiltà, dandole il primo posto nel Decalogo: “Io sono il Signore Dio tuo”. La parola dell’eterno fondamento invisibile che viene ad affacciarsi nel tempo con la rivelazione comincia infatti con “io”, “anochì”, la cui iniziale è “aleph”[3]. Se dunque la storia dell’uomo e del mondo inizia con la “beth” ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo, la verità di Dio ci viene offerta solo a partire dall’“aleph”, con cui inizia l’“Io” della Sua sovrana auto-comunicazione. La storia è domanda aperta, a cui l’Eterno offre la misteriosa risposta dell’“aleph”, dell’umiltà della Sua rivelazione, della Sua chiamata e della Sua operosa presenza fra gli uomini[4].
Proprio così, è alla fede biblica che si deve l’“invenzione” della storia: dove altri colsero “l’eterno ritorno” dell’identico[5], i credenti del patto riconobbero un destino, l’appello a una patria intravista, anche se non posseduta. La storia non è l’infinita ripetizione del ciclo dei giorni e delle stagioni, portato a coscienza per esorcizzare il dolore e farne una semplice tappa dell’eterno ritorno, ma la risposta a una chiamata, l’andare verso una meta. L’uomo biblico sa che questo viaggio è suscitato e accompagnato dall’Altro, che non lascia mai solo il Suo interlocutore umano né è indifferente alla sua risposta. Come la sposa del Cantico, Dio è in cerca dell’uomo, lo chiama, percorre le notti per trovarlo e abbracciarlo. Il Dio della storia è un Dio che fa storia: la storia degli uomini è l’altra faccia della storia di Dio. Dio ha bisogno degli uomini e crede in essi, più di quanto essi credano in Lui. Dalla “preistoria della salvezza”, che è l’opera della creazione, all’alleanza con Noè e poi con Abramo, fino all’alleanza del Sinai e alla venuta del Messia, il tempo storico è anche tempo di Dio, spazio del Suo avvento, luogo della Sua promessa e delle Sue sorprese.
Fra queste, la più indeducibile e alta per la fede cristiana è l’incarnazione del Figlio, con la quale il Verbo viene a mettere le sue tende fra gli uomini e a farsi egli stesso protagonista di una storia pienamente umana. Nella vicenda di Gesù di Nazaret si compie così la rivelazione dell’uomo e della storia: “In realtà - afferma la Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II - solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”[6]. Nel suo culmine - la Pasqua - la storia del Figlio incarnato si offre come la “storia della storia”, denso compendio del destino di morte e resurrezione di ogni uomo e del mondo. Dio fa Sua la morte per dare a noi la vita: la storia è agli occhi della fede questa unità di morte e di vita a favore della vita.
Anche nella tradizione ebraica l’idea della “shekhinah” divina - il misterioso attendarsi di Dio in mezzo al Suo popolo - mostra come la storia possa essere fatta propria dall’Eterno per amore degli uomini: si tratta di una presenza così profonda e vicina da divenire condivisione del dolore e della gioia. Dice un commovente “midrash” della fine del IV secolo: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekhinah andò con loro. Andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekhinah… andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… furono in Edom ed essa era con loro… ma quando torneranno, la Shekhinah farà ritorno insieme a loro”[7]. Il Dio e Padre d’Israele è, dunque, tutt’altro che il Dio lontano che schiaccia l’uomo: è anzi il Dio di compassione e di tenerezza, che entra nella storia e la fa sua per operarvi le Sue meraviglie a favore degli uomini. Ecco perché l’incontro con questo Dio non si realizzerà mai fuggendo dalla storia, ma impegnandosi in essa: non l’eternizzazione del presente, ma lo storicizzarsi dell’Eterno è per la tradizione ebraico-cristiana la via della salvezza del mondo. Il Dio-con-noi, l’eterno Emanuele, Signore del tempo e della storia, è tale perché aiuta con la Sua grazia l’uomo a far lievitare il tempo verso l’eternità e a trasfigurare dall’interno la storia con l’anticipo della bellezza futura.
(1-Continua)
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