martedì 1 dicembre 2009

SPECIALE ENCICLICA "CARITAS IN VERITATE" - LA NUOVA ENCICLICA E LA PASTORALE PER I MIGRANTI / 3 (78.ESIMA PARTE)

24 ottobre 2009
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione del discorso pronunciato il 5 ottobre scorso dall’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo a Vicenza a un incontro promosso dalla Fondazione Migrantes diocesana.
CAPITOLO III. Premessa e analisi del N. 62 della caritas in veritate
Passiamo ora all’analisi approfondita del N. 62 che tratta del rapporto fra sviluppo umano integrale e fenomeno migratorio, ma con qualche premessa.
Quando nell’enciclica Populorum Progressio Paolo VI trattava di sviluppo aveva di esso una visione ben precisa e articolata, ripresa da Benedetto XVI: “Con il termine «sviluppo» [Paolo VI] voleva indicare l'obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall'analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace” (N. 21). Orbene, con ragione, dal cuore di Benedetto XVI sgorga ora una domanda: “Dopo tanti anni, mentre guardiamo con preoccupazione agli sviluppi e alle prospettive delle crisi che si susseguono in questi tempi, ci domandiamo quanto le aspettative di Paolo VI siano state soddisfatte dal modello di sviluppo che è stato adottato negli ultimi decenni” (ib.).
La situazione di crisi che il mondo sta attraversando è di fatto prova tangibile che lo sviluppo non può essere solo tecnologico e economico, che pur avendo “tolto dalla miseria miliardi di persone” e “dato a molti Paesi la possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale”, continua comunque “ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi” (N. 21). Lo sviluppo deve rivestire “la totalità della persona in ogni sua dimensione” (N. 11), cosicché esso non diventi un obbiettivo in se stesso, ma un mezzo per la realizzazione della persona umana, “del destino stesso dell’uomo che non può prescindere dalla sua natura” (N. 21). In lui è “l’immagine divina” che lo porta a “scoprire veramente l’altro e a maturare un amore che ‘diventa cura dell’altro e per l’altro’” (N. 11). L’essere umano si sviluppa attraverso i suoi rapporti con gli altri e dunque lo sviluppo non può essere un fatto individuale ma necessariamente sociale. E’, “umanamente e cristianamente inteso, il cuore del messaggio sociale cristiano”, avendo “la carità cristiana come principale forza a [suo] servizio” (N. 13). E’ dunque destinato a contribuire all’edificazione di quella “civiltà animata dall’amore” prospettata da Paolo VI, “il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura” (N. 33).
1. Migrazioni internazionali
Questa premessa ci aiuta ad affrontare la questione delle migrazioni internazionali, effetto e causa dell’attuale processo di globalizzazione, cioè di quell’“esplosione dell’interdipendenza planetaria” già intravista da Paolo VI nella Populorum Progressio (N. 3). Di per sé si tratta di un fenomeno che ha grandemente contribuito a far uscire intere regioni dal sottosviluppo. La globalizzazione però “può [anche] concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana” (N. 33). Difatti “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità”. E questa “mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” si annovera fra le cause più importanti del sottosviluppo (N. 19). E’ dunque necessario che questa maggiore vicinanza tra le persone, oggi, si trasformi in vera comunione, se si vuole arrivare all’autentico sviluppo dei popoli. Di fatto esso “dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente l'uno accanto all'altro” (N. 53).
2. Rapporto tra migrazioni e sviluppo
Il rapporto tra migrazioni e sviluppo è comunque assai complesso7, perché non è lineare il rapporto causa-effetto tra i due termini del binomio. Si ritiene che la mancanza di sviluppo nella terra d’origine generi emigrazione, perché ivi è difficile assicurare una vita degna, o addirittura soddisfare alle fondamentali necessità di sopravvivenza, per sé e per la propria famiglia. Eppure l’emigrazione stessa può anche generare una mancanza di sviluppo, reso assai difficile se si priva il Paese originario delle migliori risorse umane atte a dare un contributo significativo alla produzione locale e ai processi ad essa connessi.
In ogni caso siamo qui di fronte ad un “fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale” (N. 62). Si stima che dopo il 2010 ci sarà una media di 2,3 milioni di migranti l’anno dai Paesi in via di sviluppo (Africa, Asia escluso il Giappone, America Latina e Caraibi, Oceania escludendo l’Australia e la Nuova Zelanda) a quelli che lo hanno raggiunto (America del Nord, Australia, Europa, Giappone, Nuova Zelanda), assicurandovi in tal modo la non diminuzione di popolazione. Dal 1960, il numero di migranti verso le regioni più sviluppati fu in costante aumento, fino ad arrivare al valore massimo di una media di 3,3 milioni di persone l’anno tra il 2005 al 2008, per diminuire poi - è previsione - a 2,3 milioni l’anno fino al 2050. Si ritiene perciò che nei prossimi 40 anni ci sarà una grande richiesta, da parte dei Paesi sviluppati, di lavoratori provenienti da Paesi in via di sviluppo.8
3. Circa gli immigrati altamente qualificati
Comunque è già in atto in molti Paesi di destino una politica di captazione di lavoratori altamente qualificati e competenti provenienti da Paesi meno sviluppati, inclusi studenti universitari e post-universitari, con l’intento di incoraggiare questi ultimi a rimanere. Da qui la difficile questione del “brain drain”, o fuga di cervelli, chiamiamola così. Ma si argomenta che il fatto si verifica solo se è inequivocabilmente evidente che l’emigrazione ha avuto un impatto negativo sulla situazione socio-economica del Paese di origine. E’ il caso della crescente emigrazione di professionisti ed operatori nel settore della sanità. Eppure sarebbe un violare i loro diritti umani e la loro libertà di movimento se si attuassero provvedimenti che togliessero loro la possibilità di decidere liberamente se partire o meno. In ogni caso, l’effetto negativo dell’emigrazione qualificata si associa soprattutto al trasferimento permanente, perché se così non fosse, vi sarebbe opportunità, per chi rientra, di comunicare ai connazionali il “know-how” acquisito all’estero. Ci potrebbe essere altresì la possibilità di investire localmente i risparmi accumulati nel corso del lavoro svolto altrove. Da considerare infine le rimesse, una significativa fonte di reddito per molti Paesi in via di sviluppo. Il beneficio che i Paesi di origine ricaveranno dall’emigrazione dei loro cittadini dipenderà certamente dalla progettazione e applicazione concreta di politiche che ne ottimizzino i benefici e ne minimizzino i costi.9
(3-Continua)

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