lunedì 7 dicembre 2009

INCONTRO AL NATALE 2009 (4) - PRIMA PREDICA D'AVVENTO: "SERVI E AMICI DI GESU' CRISTO" / 2 (Fine)

A cura del Predicatore della Casa Pontificia,
padre Raniero Cantalamessa

4 dicembre 2009
Tratto da ZENIT.org

Continua la pubblicazione del testo della prima meditazione d'Avvento che il Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì alla presenza di Benedetto XVI nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico.Il tema delle meditazioni di quest'anno è: “Ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Corinzi 4, 1),Le prossime Prediche si terranno l'11 e il 18 dicembre.
4. Servi e amici
Ma ora dobbiamo fare un passo avanti nella nostra riflessione. “Servi di Gesù Cristo!”: questo titolo non dovrebbe mai stare da solo; ad esso si deve affiancare sempre, almeno, nel fondo del proprio cuore, un altro titolo: quello di amici!
La radice comune di tutti i ministeri ordinati che si delineeranno in seguito è la scelta che Gesù fece un giorno dei Dodici; questo è ciò che, dell’istituzione sacerdotale, risale al Gesù storico. La liturgia colloca, è vero, l’istituzione del sacerdozio il Giovedì Santo, a causa della parola che Gesù pronunciò dopo l’istituzione dell’Eucaristia: “Fate questo in memoria di me”. Ma anche questa parola presuppone la scelta dei Dodici, senza contare che, presa da sola, giustificherebbe il ruolo di sacrificatore e liturgo del sacerdote, ma non quello, altrettanto fondamentale, di annunciatore del vangelo.
Ora, che cosa disse in quella circostanza Gesù? Perché scelse i Dodici, dopo aver pregato tutta la notte? “Ne costituì dodici per tenerli con sé e per mandarli a predicare” (Mc 3,14-15). Stare con Gesù e andare a predicare: stare e andare, ricevere e dare: c’è in poche parole l’essenziale del compito dei collaboratori di Cristo.
Stare “con” con Gesù non significa evidentemente solo una vicinanza fisica; c’è già, in nuce, tutta la ricchezza che Paolo racchiuderà nella formula pregnante “in Cristo” o “con Cristo”. Significa condividere tutto di Gesù: la sua vita itinerante, certo, ma anche i suoi pensieri, gli scopi, lo spirito. La parola compagno viene dal latino medievale e significa colui che ha in comune (con-) il pane (panis), che mangia lo stesso pane.
Nei discorsi di addio, Gesù fa un passo avanti, completando il titolo di compagni con quello di amici: “Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio” (Gv 15.15).
C’è qualcosa di commovente in questa dichiarazione d’amore di Gesù. Ricorderò sempre il momento in cui fu dato anche a me, per un istante, di conoscere qualcosa di questa commozione. In un incontro di preghiera qualcuno aveva aperto la Bibbia e aveva letto quel brano di Giovanni. La parola “amici” mi raggiunse a una profondità mai sperimentata; smosse qualcosa nel profondo di me, tanto che per tutto il resto della giornata andavo ripetendo tra me, pieno di stupore e di incredulità: Mi ha chiamato amico! Gesù di Nazareth, il Signore, il mio Dio! Mi ha chiamato amico! Io sono suo amico! E mi pareva che si potesse volare sui tetti della città e attraversare anche il fuoco, con quella certezza.
Quando parla dell’amore di Gesù Cristo san Paolo appare sempre “commosso”: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rom 8, 35), “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Noi siamo portati a diffidare della commozione e perfino a vergognarcene. Non sappiamo di quale ricchezza ci priviamo. Gesù “si commosse profondamente” e pianse davanti alla vedova di Nain (cf Lc 7, 13) e alle sorelle di Lazzaro (cf Gv 11, 33.35). Un sacerdote capace di commuoversi quando parla dell’amore di Dio e della sofferenza di Cristo o raccoglie la confidenza di un grande dolore, convince meglio che con infiniti ragionamenti. Commuoversi non significa necessariamente mettersi a piangere; è qualcosa che si avverte negli occhi, nella voce. La Bibbia è piena del pathos di Dio.
5. L’anima di ogni sacerdozio
Un rapporto personale, pieno di confidenza e di amicizia con la persona di Gesù è l’anima di ogni sacerdozio. In vista dell’anno sacerdotale mi sono riletto il libro di Dom Chautard “L’anima di ogni apostolato” che fece tanto bene e scosse tante coscienze negli anni anteriori al concilio. In un momento in cui c’era grande entusiasmo per le “opere parrocchiali”: cinema, ricreatori, iniziative sociali, circoli culturali, l’autore riportava bruscamente il discorso al cuore del problema, denunciando il pericolo di un attivismo vuoto. “Dio, scriveva, vuole che Gesù sia la vita delle opere”.
Non riduceva l’importanza delle attività pastorali, tutt’altro, affermava però che senza una vita di unione con Cristo, esse non erano che “stampelle”, o, come le definiva san Bernardo, “maledette occupazioni”. Gesù disse a Pietro: “Simone mi ami? Pasci le mie pecore”. L’azione pastorale di ogni ministro della Chiesa, dal papa all’ultimo sacerdote, non è che l’espressione concreta dell’amore per Cristo. Mi ami? Allora pasci! L’amore per Gesù è quello che fa la differenza tra il sacerdote funzionario e manager e il sacerdote servo di Cristo e dispensatore dei misteri di Dio.
Il libro di Dom Chautard avrebbe potuto benissimo intitolarsi “L’anima di ogni sacerdozio”, perché è di lui che si parla, in pratica, in tutta l’opera, come agente e responsabile in prima linea della pastorale della Chiesa. A quel tempo, il pericolo a cui si intendeva reagire era il cosiddetto “americanismo”. L’Abate si rifà spesso, infatti, alla lettera di Leone XIII “Testem benevolentiae” che aveva condannato tale “eresia”.
Oggi questa eresia, se di eresia si può parlare, non è più solo “americana”, ma una minaccia che, anche a causa del diminuito numero dei sacerdoti, insidia il clero di tutta la Chiesa: si chiama attivismo frenetico. (Molte delle istanze, del resto, che provenivano in quel tempo dai cristiani degli Stati Uniti, e in particolare dal movimento creato dal servo di Dio Isaac Hecker, fondatore dei Paulist Fathers, bollate con il termine “americanismo”, per esempio la libertà di coscienza e la necessità di un dialogo con il mondo moderno, non erano eresie, ma istanze profetiche che il Concilio Vaticano II, in parte, farà proprie!).
Il primo passo, per fare di Gesù l’anima del proprio sacerdozio, è passare dal Gesù personaggio al Gesù persona. Il personaggio è uno del quale si può parlare a piacimento, ma al quale e con il quale nessuno si sogna di parlare. Si può parlare di Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone finché si vuole, ma se uno dicesse di parlare con qualcuno di essi, lo manderebbero subito da uno psichiatra. La persona, al contrario, è uno con il quale e al quale si può parlare. Finché Gesù rimane un insieme di notizie, di dogmi o di eresie, qualcuno che si colloca istintivamente nel passato, una memoria, non una presenza, è un personaggio. Bisogna convincersi che egli è vivo e presente, e più importante che parlare di lui, è parlare con lui.
Uno dei tratti più belli della figura del don Camillo di Guareschi, naturalmente tenendo conto del genere letterario adottato, è il suo parlare ad alta voce con il Crocifisso di tutte le cose che succedono nella parrocchia. Se prendessimo l’abitudine di farlo, così spontaneamente, con parole proprie, quante cose cambierebbe nella nostra vita sacerdotale! Ci accorgeremmo che non parliamo mai a vuoto, ma a qualcuno che è presente, ascolta e risponde, magari non ad alta voce come a Don Camillo.
6. Mettere al sicuro “le grosse pietre”
Come in Dio tutta l’opera esterna della creazione, sgorga dalla sua vita intima, “dall’incessante flusso del suo amore”, e come tutta l’attività di Cristo sgorga dal suo dialogo ininterrotto con il Padre, così tutte le opere del sacerdote devono essere il prolungamento della sua unione con Cristo. “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”, significa anche questo: “Io sono venuto nel mondo senza separarmi dal Padre, voi andate nel mondo senza separarvi da me”.
Quando questo contatto si interrompe, è come quando in una casa cade la corrente elettrica e tutto si ferma e rimane al buio, o, se si tratta del rifornimento idrico, i rubinetti non danno più acqua. Si sente dire talvolta: come starsene tranquilli a pregare quando tanti bisogni reclamano la nostra presenza? Come non correre, quando la casa brucia? E' vero, ma immaginiamo cosa succederebbe a una squadra di pompieri che accorresse, a sirene spiegate, per spegnere un incendio e poi, giunta sul posto, si accorgesse di non avere con sé, nei serbatoi, neppure una goccia d'acqua. Così siamo noi, quando corriamo a predicare o ad altro ministero vuoti di preghiera e di Spirito Santo.
Ho letto da qualche parte una storia che mi sembra si applichi in modo esemplare ai sacerdoti. Un giorno, un vecchio professore fu chiamato come esperto a parlare sulla pianificazione più efficace del proprio tempo ai quadri superiori di alcune grosse compagnie nordamericane. Decise allora di tentare un esperimento. In piedi, tirò fuori da sotto il tavolo un grosso vaso di vetro vuoto. Insieme prese anche una dozzina di pietre grosse quanto palle da tennis che depose delicatamente una a una nel vaso fino a riempirlo. Quando non si poteva aggiungere più altri sassi, chiese agli allievi: «Vi sembra che il vaso sia pieno?» e tutti risposero «Si!».
Si chinò di nuovo e tirò fuori da sotto il tavolo una scatola piena di breccia che versò sopra le grosse pietre, movendo il vaso perché la breccia potesse infiltrarsi tra le pietre grosse fino al fondo. «È pieno questa volta il vaso?» chiese. Divenuti più prudenti, gli allievi cominciarono a capire e risposero: «Forse non ancora». Il vecchio professore si chinò di nuovo e tirò fuori questa volta un sacchetto di sabbia che versò nel vaso. La sabbia riempì gli spazi tra i sassi e la breccia. Quindi chiese di nuo­vo: «È pieno ora il vaso?». E tutti, senza esitare, risposero: «No!». Infatti il vecchio prese la caraffa che era sul tavolo e versò l’acqua nel vaso fino all’orlo.
A questo punto domanda: «Quale grande verità ci mo­stra questo esperimento?». Il più audace rispose: «Questo dimostra che anche quando la nostra agenda è completamente piena, con un po’ di buona volontà, si può sempre aggiungervi qualche impegno in più, qualche altra cosa da fare». «No» rispose il professore. «Quello che l’esperimento dimostra è che se non si mettono per primo le grosse pietre nel vaso, non si riuscirà mai a farvele entrare in seguito.» «Quali sono le grosse pietre, le priorità, nella vostra vita? La cosa importante è mettere queste grosse pietre per prime nella vostra agenda».
San Pietro ha indicato, una volta per tutte, quali sono le grosse pietre, le priorità assolute, degli apostoli e dei loro successori, vescovi e sacerdoti: “Quanto a noi, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola” (At 6,4).
Noi sacerdoti, più che chiunque altro, siamo esposti al pericolo di sacrificare l’importante all’urgente. La preghiera, la preparazione dell’omelia o alla Messa, lo studio e la formazione, sono tutte cose importanti, ma non urgenti; se si rimandano, apparentemente, non casca il mondo, mentre ci sono tante piccole cose - un incontro, una telefonata, un lavoretto materiale – che sono urgenti. Così si finisce per rimandare sistematicamente le cose importanti a un “dopo” che non arriva mai.
Per un sacerdote, mettere per prime nel vaso le pietre grosse, può significare molto concretamente, iniziare la giornata con un tempo di preghiera e di dialogo con Dio, in modo che le attività e gli impegni vari non finiscano per occupare tutto lo spazio.
Termino con una preghiera dell’abate Chautard che si trova stampata nel programma di queste meditazioni: “O Dio, date alla Chiesa tanti apostoli, ma ravvivate nel loro cuore una sete ardente di intimità con Voi e insieme un desiderio di lavorare per il bene del prossimo. Date a tutti un’attività contemplativa e una contemplazione operosa”. Così sia!
Note
1) H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, Paideia, Brescia 1974, p. 227.
2) Gregorio Nisseno, Sul Cantico, XI, 5, 2 (PG 44, 1001) (aisthesis parousias).

(2-FINE)

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