venerdì 11 febbraio 2011

NUOVI SPUNTI SULLA "CARITAS IN VERITATE" (115) - IL CARD. BERTONE SULL'ENCICLICA E IL NUOVO UMANESIMO (SECONDA ED ULTIMA PARTE)

Inaugurazione dell’anno accademico 2009-2010
dell’Università Europea di Roma
24 novembre 2009
Tratto da ZENIT.org
Di seguito la Lectio magistralis svolta dal Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone sul tema “Verso un nuovo umanesimo” in occasione dell'inaugurazione dell’anno accademico 2009-2010 dell’Università Europea di Roma.
Secondo umanesimo e sua connessione con le strutture economiche
Oggi siamo di fronte a un passaggio epocale radicale, un nuovo punto di svolta della civiltà; e non si tratta più solo dell'Europa, quanto dell'intera famiglia umana. Globalizzazione, liberalizzazione, finanziarizzazione, nuove tecnologie, migrazioni globali, disuguaglianze sociali, conflitti identitari, rischi ambientali sono solo alcuni dei processi che segnano l'ingresso della civiltà nella rete della complessità.
È possibile, dunque, in questo contesto, un nuovo umanesimo? Riteniamo di sì, perchè la crisi finanziaria rende più urgente tale domanda, anche se la risposta sarà più articolata, e per taluni aspetti più ardua.
Si è giunti alla crisi finanziaria, oltre che per la persistenza di gravi squilibri strutturali nell'economia mondiale perché si sono trascurate le dimensioni etiche della finanza: è stata, in termini diversi, dimenticata la sua vera natura, quella di essere strumento nobile e positivo, che indirizza l'impiego delle risorse risparmiate lì dove esse favoriscono l'economia reale, il benessere, lo sviluppo di tutti gli uomini.
Vediamone brevemente le cause remote, attraverso i fattori di crisi più eclatanti.
Il primo concerne il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a consolidare nel corso dell’ultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, diversi paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in materia pensionistica ad investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari, esponendo così l’economia reale ai capricci della finanza e generando il bisogno crescente di destinare alla remunerazione dei risparmi in essi investiti quote di valore aggiunto. Le pressioni sulle imprese, derivanti dalle borse e dai fondi di private equity, si sono ripercosse in più direzioni: sui dirigenti indotti a migliorare continuamente le performance delle loro gestioni allo scopo di ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincerli a comprare sempre di più, pur in assenza di potere d’acquisto; sulle imprese dell’economia reale per convincerle ad aumentare il valore per l’azionista. E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti si sia ripercossa sull’intero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio modello culturale.
Un altro fattore causale della crisi è la diffusione a livello di cultura popolare dell’ethos dell’efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica (cfr. T. Bertone, Discorso al Senato della Repubblica Italiana, 28 luglio 2009).
Lo strumento si è, pertanto, trasformato in un fine. Non è certo un fenomeno nuovo. Già in Aristotele si trova una spiegazione di questo processo. Ecco il suo ragionamento: la ricchezza - sostiene - è parte di una "vita buona", cioè di una vita conforme alla verità, mentre diventa più difficile, se non impossibile, raggiungere l'obiettivo di una "vita buona" quando si affoga nell'indigenza. Può trattarsi di "vita buona" per l'individuo, e allora si chiama "etica"; di "vita buona" per lo Stato, e allora si chiama "politica".
Ciò premesso, Aristotele descrive il rovesciamento di mezzi e di fini. All'inizio ci si adopera per essere ricchi, per realizzare una convivenza civile, in cui la sofferenza, come penuria dei mezzi per la sussistenza, non incida oltre i limiti che per Aristotele sono "naturali". In sintesi, ci si adopera per realizzare la "vita ricca di beni materiali" al fine di raggiungere la "vita buona". Quest'ultima non ha un significato "sentimentale", ma va intesa come agire che si adegua all'ordinamento del mondo, che il pensiero filosofico ha svelato.
Poi si rovescia tutto. Si comincia a essere ricchi per essere ancora più ricchi e inizia a delinearsi la figura dell'incremento indefinito del profitto. È la logica distruttiva dell'illimitato, di ciò che non ha limite, di ciò che non ha senso.
Non a caso, i guasti, anche quelli morali, della attuale crisi finanziaria discendono proprio dall'insostenibilità di quei comportamenti che distruggono gli equilibri su cui si reggono la tenuta della società e le sue possibilità di sviluppo. Tale insostenibilità non è il risultato di una patologia del sistema. È, invece, il frutto di una esasperazione della sua logica: la logica del capitalismo è l'accumulazione, la quale per natura è illimitata. Si dovrebbe dire, più propriamente, sterminata. Ed è la logica della sterminatezza che sta alla base dei disastri finanziari.
Si può opporre a questa logica dissennata dell'illimitato l'etica dei limiti? Si può circoscrivere la presunta "creatività" delle scommesse finanziarie? Si possono rallentare i movimenti di capitale speculativi? Si possono reintrodurre politiche che proporzionino lavoro e produttività? Si possono introdurre misure di moralità nella sfrenata corsa delle rendite manageriali?
Sono domande, queste, che segnalano l'urgenza, più che di una via d'uscita (exit strategy) di una moral reentry: il ritorno della morale. Che significa, anzitutto, responsabilità della persona, prima che dei Governi, verso gli altri e la loro dignità.
Lo stesso ragionamento, quello, cioè, del rovesciamento di mezzi e fini, può essere fatto valere per il dibattito sulla opportunità, che può essere condivisibile, di introdurre nuove regole per l'attività finanziaria; un dibattito spesso condotto senza interrogarsi sul comportamento di regolatori e controllori. Regole e controlli, infatti, non sono un fine in sé, di cui è sufficiente assicurare la mera esistenza. Sono strumenti nelle mani degli uomini. E gli strumenti, come ha ricordato Benedetto XVI a proposito del "mercato" nella Caritas in veritate, possono essere buoni, oppure cattivi: ma è la responsabilità dell'uomo che può indirizzare tali strumenti verso la giustizia.
Verso un nuovo umanesimo
Dall’enciclica Caritas in veritate vediamo emergere l’esigenza dell’uomo alleato del¬l'altro uomo, della sua sor¬te, della sua storia. Alleato con l'uomo e la terra, dentro i suoi medesimi orizzonti, dentro un umanesimo chiamato a sfidare il suo futuro.
Se la globalizzazione è la ricomposizione dei sistemi economici attraverso l'affermazione e la diffusione della teoria e della prassi del mercato, che ha mutato l'assetto geo-economico mondiale attraverso i processi di interrelazione tra individui, società, istituzioni e Stati, è necessario che gli Stati stessi intervengano dove maggiori si stanno dimostrando le distorsioni del mercato nell'emarginare aree geografiche periferiche, classi sociali più deboli ed economie meno competitive, nell'ambito di un rinnovato pensare dell'economia.
Questo significa andare oltre, o meglio, ampliare con nuovi paradigmi la teoria del mercato e la teoria tradizionale dell'impresa nell'economia globalizzata, che deve essere sempre più rivolta all'etica e meno al profitto. Si tratta, in altri termini, di adeguare l'evidenza empirica della globalizzazione a nuove regole, fatte dall'uomo per l'uomo, per i suoi valori, per il miglioramento, morale e materiale, dell'intera comunità.
La Caritas in veritate non tralascia di segnalare che: “In questi ultimi decenni è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese [imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit)]. Essa è costituita da imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un « terzo settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali” (n. 46).
Ripetiamo la domanda: è dunque possibile oggi un nuovo umanesimo, che riporti l'uomo, la sua dignità e la sua responsabilità al centro?
Giuseppe Anzani, magistrato, membro della Commissione Giustizia e Pace della CEI, scrisse su Avvenire nel 1998, due anni prima della fine del secondo millennio, questa analisi piena di speranza: “Fissiamo pure gli occhi sul¬l'orizzonte umano. Sull'uma¬nesimo di questo secolo che si chiude. Proviamo pure ad in¬tenderlo come una sorta di fe¬de nell'uomo, nei «magnifici destini» can¬tati ai suoi albori, nell'entu¬siasmo per le rivoluzioni pro¬messe. Esploriamo, a ritroso, i suoi trionfi, e le sue sconfit-te. L'uomo padrone della ter¬ra, dell'atomo, degli spazi co¬smici della scintilla della vita; divenuto capace, come abbiamo appreso in concreto, di mandare in pezzi la terra, di marchiare il cielo con i presidii delle guerre stellari, di rivoluzionare i villaggi umani massificando, con ideologie «liberatrici» di raffinata schiavitù. Guardiamolo d'infilata, questo secolo dell'estrema modernità, con i suoi olocausti e le sue ecatombi. Guardiamo alla scienza e all'evanescenza: all'impennata tecnologica e allo smarrimento confessato del pensiero. Alle intuizioni di giu¬stizia [vedi Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo] e alle contraddizioni che accostano lussi e miserie, eccedenze e disperazioni; pensiamo ai soprassalti del pensiero ecologico, dentro le desertificazioni e defo¬restazioni. O infine, in una parola, pensiamo alla devastazione normalizzata dell'ambiente umano, materiale e spirituale: al¬lo scarto tragico tra i propositi e i risultati.
Un umanesimo sconfitto? Il Papa dice di no [si riferiva a Giovanni Paolo II, ma in perfetta continuità ciò vale per Benedetto XVI], il Papa guarda oltre, e ci incoraggia. E’ forse un inguaribile ottimista? Chissà perché è crollato il muro di Berlino. Chissà perché la speranza pianta i suoi steli negli interstizi della storia. L'ottimismo è una parola povera, la speranza è una virtù teologale…” (da Avvenire, giovedì 19 novembre 1998).
Per concludere vorrei leggere un brano attribuito a Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI, che si inserisce bene nel nostro discorso: “Come la Chiesa al tempo della civiltà pagana, ellenico-romana, respinse, sì, quanto vi era di idolatrico e di inumano, ma conservò, purificò, assimilò i tesori della cultura e dell'arte classica; come la Chiesa al tempo del feudalesimo si oppose, sì, a quanto di barbaro e di violento vi era in quella espressione storica delle nuove genti, ma accolse, corresse, nobilitò le forze dell'uomo medioevale; come la Chiesa, al tempo del rinascimento, frenò l'ebrezza dell'umanesimo pagano risorgente e fece sue, portandole a vertici incomparabili, le virtù artistiche del tempo; così la Chiesa ancora denuncerà il materialismo di ogni specie, proprio nella nostra età, ma non maledirà la gigantesca e meravigliosa civiltà della scienza, dell'industria, della tecnica, della vita internazionalizzata della nostra epoca, sibbene bene cercherà di "assumerla", cioè di darle, alla base, principi forti e buoni che ancora non ha, al vertice di aprirle orizzonti di verità spirituali, di preghiera e di redenzione, che solo ella può veramente dare.
La Chiesa cercherà di compiere oggi ciò che da secoli compie: di dare pace e fratellanza agli uomini facendoli in Cristo figli di Dio. Cercherà come sempre di dare al mondo un'anima cristiana”.
(Fine Seconda ed ultima Parte)

Nessun commento: