lunedì 28 febbraio 2011

150 ANNI D'ITALIA E D'ITALIANI (15) - L'UNITA' D'ITALIA E LA QUESTIONE MERIDIONALE (PRIMA PARTE)

12 febbraio 2011
Tratto da ZENIT.org
Di seguito il discorso pronunciato venerdì 11 febbraio da mons. Mariano Crociata, Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) intervenendo a Conegliano (TV) sul tema “L’unità d’Italia e la questione meridionale: il Magistero della Chiesa e il compito dei cristiani”.
La questione meridionale [1] accompagna la storia d’Italia dall’unità fino ad oggi; anzi, la questione meridionale nasce, in qualche modo, con l’unità d’Italia. Detta in modo così perentorio, l’affermazione si presta a fraintendimento; essa vuole, però, mettere in evidenza il carattere contestuale della questione stessa, senza che l’unità debba, per questo, considerarsi la causa che l’ha generata. La condizione economica e sociale del Mezzogiorno d’Italia non cambia per effetto di un suo repentino impoverimento al compiersi dell’unità del nuovo Stato, ma per la profonda modificazione dei rapporti nell’economia e nella società meridionali prodotti dall’incontro con l’economia e la società dell’intera nazione. L’equilibrio precario, che si poteva riscontrare nel meridione pre-unitario, per tanti versi si rompe con l’avvento dell’unità. Venuta meno la protezione assicurata dai confini del Regno borbonico, la condizione sociale del meridione si presenta in tutta la sua fragilità, ancora più vistosa rispetto alle dinamiche maggiormente avanzate delle altre parti d’Italia, con le quali fa fatica a reggere il confronto. La storia dell’Italia unita è anche la storia dei tentativi messi in opera per superare lo scarto e portare anche il sud a correre con lo stesso passo delle altre parti del Paese. Il fatto che ancora oggi tale traguardo sia dinanzi a noi, non raggiunto, colora il panorama dell’Italia di una tonalità di luce tutt’altro che brillante; ma colora ancora più tristemente il quadro in cui, complessivamente e non senza sue responsabilità, il Sud si vede inscritto e rappresentato.
La questione meridionale nella storia dell’Italia unita
La fine del Regno di Napoli (creato nel 1302 e così denominato ufficialmente nel 1500), per un breve periodo unificato con difficoltà al Regno di Sicilia nel Regno delle Due Sicilie (1816-1860), si consuma con l’Unità, determinando una sorta di frontiera interna all’Italia, una frontiera da superare perché è una linea che divide, anche se nello stesso tempo necessariamente unisce.
A tutt’oggi nessuna delle regioni meridionali supera nessuna delle regioni del centro o del settentrione nel reddito pro capite. Nessun altro paese avanzato mostra una tale spaccatura, con un blocco “arretrato” così consistente, compatto e persistente [2]. Questa frontiera interna assume, a partire dal decennio successivo all’unificazione, il nome di “questione meridionale”, che rapidamente si impone rispetto a quello, utilizzato da uno dei primi e più autorevoli “meridionalisti”, Pasquale Villari[3], di “questione napoletana”. Nel pensiero e nell’azione di questi intellettuali la “questione meridionale” rappresenta – lo si legge nel titolo stesso del volume di Villari – uno dei punti, forse quello di maggiore rilievo in Italia, della “questione sociale” che attraversa tutta l’Europa della fine del XIX secolo. Salvatore Francesco Romano[4] certifica come autore di questa locuzione il deputato radicale lombardo Antonio Bilia, che alla Camera interviene il 5 maggio 1873 a proposito delle iniziative del ministero Lanza-Sella.
Il brigantaggio era finito da poco ed era stata la prima esperienza della difficoltà di misurarsi con la realtà dell’ex Regno [5]. La commissione d’inchiesta sul brigantaggio è esplicita nella denuncia di un problema strutturale: «le prime cause del brigantaggio, recita un passo molto citato della relazione curata dall’on. Massari e letta il 3 maggio 1863, sono le cause predisponenti. E prima fra tutte la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle province è assai infelice». La fine del brigantaggio, che, quantomeno nella sua fase iniziale (il cosiddetto “grande brigantaggio”), aveva anche delle motivazioni politiche, legittimiste e secessioniste, non chiude, ma apre la “questione meridionale”, appunto come frontiera interna. Il dibattito parlamentare sopra richiamato verteva sul primo, importante investimento in infrastrutture al sud, l’arsenale di Taranto, di cui si comincia a parlare dal 1865. Il progetto viene abbandonato, per motivi di bilancio, nel 1873 e non sarà approvato con una legge che nel 1882. Si esaurisce così, proprio all’inizio degli anni Settanta, la prima classe dirigente politica meridionale, quella legata alla Destra Storica, e rappresentata dagli ex-esuli ed ex-oppositori del regime borbonico, che erano rientrati nel 1860, governando dall’alto un progetto di modernizzazione che condividevano con il governo centrale, al quale erano chiamati in posti anche rilevanti.
Questi scontano, però, l’assenza di legami con una società meridionale, che, dopo la crisi post-unitaria, comincia a organizzarsi. Non si riesce, innanzi tutto certo per motivi di bilancio, ma anche di impostazione culturale e politica, a mettere mano a politiche di modernizzazione efficaci e differenziate, in particolare in agricoltura. L’applicazione delle politiche di unificazione legislativa non le innesca. Si pensi all’incameramento dei beni ecclesiastici e alla soppressione degli ordini religiosi, che si risolve, come scrisse Gaetano Salvemini, in una sorta di tassa di guerra del sud all’Italia unita. Forti capitali liquidi passano verso le casse dello Stato e poi sono investiti in gran parte al centro-nord o in pagamento dei beni dell’antico asse ecclesiastico o comunque trasferiti e investiti altrove dalle banche e dalle casse postali.
La crisi di questo assetto porta all’emergere di un ceto politico nuovo, privo però di solide basi. La coscienza dell’inferiorità economica e della sottorappresentazione politica genera una coalizione di scontenti, che vince le elezioni del 1874 e del 1876. Ne fanno parte anche elementi e interessi del cosiddetto “vecchio regime”, mediati da un nuovo strato di borghesia. Questa vittoria del 1874 sotto le bandiere della cosiddetta Sinistra giovane cambia il quadro parlamentare ed è una delle condizioni perché si realizzi il cambio di maggioranza del 1876, poi confermato dalle elezioni dello stesso anno. Va al potere la sinistra (e non lo lascerà più fino alla guerra mondiale) e la deputazione meridionale rappresenta il nerbo della nuova maggioranza: questa nuova-vecchia classe politica meridionale entra a far parte del blocco di potere nazionale che gestirà l’Italia liberale.
Il tornante degli anni Settanta è dunque cruciale: si formalizza la questione meridionale e nello stesso tempo partecipa stabilmente al governo la rappresentanza politica dello stesso meridione, che in prospettiva non ha interesse a cambiare il quadro, a innescare quelle politiche di intervento che i meridionalisti cominciavano a invocare e mettere a punto.
Il meridionalismo nasce dallo sconcerto per il fatto che al riscatto e all’unificazione della patria non corrisponda un’uguale unificazione economica. Nella prima fase (1861-1887) si addebitano i mali del sud al passato, ai residui del “barbaro” sistema feudale, agli effetti del passato malgoverno, in particolare borbonico. Ma nel contempo la critica si viene focalizzando anche sull’Italia nuova, che non sa risolvere i vecchi problemi o che ne crea altri. Si afferma così lo schema dualistico, sulla frontiera dell’ex regno. La questione meridionale, come ogni grande tema politico, ha due facce, l’una riguardante la realtà, l’altra la rappresentazione.
Si tratta in primo luogo di conoscere la situazione. Il dibattito condotto su riviste come la «Rassegna settimanale», o più tardi la «Riforma sociale», le brillanti inchieste private di intellettuali e politici liberali e moderati, ma radicali nell’affrontare i problemi sociali, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, quelle parlamentari coordinate da Romualdo Bonfadini, da Stefano Jacini, da Claudio Faina, sull’agricoltura e sui contadini nelle regioni meridionali e in Sicilia, le statistiche ministeriali: dopo le prime denunce dello squilibrio si cominciano ad articolare i termini della questione, che permettono di “scoprire” il meridione. Giustino Fortunato contraddice definitivamente il mito della presunta feracità naturale del sud, e mostra i vincoli che ritardavano il suo sviluppo
Sonnino demistifica l’idea liberista che riconduce agli automatismi del mercato ogni prospettiva di miglioramento della condizione delle plebi. Riconduce il problema della mancanza di una classe media al nocciolo duro dell’oppressione di classe attorno alla quale prosperava il ceto dirigente locale. Ne risulta la necessità dell’intervento dello Stato per la tutela delle classi inferiori, come garanzia delle stesse basi dell’ordine civile: il suffragio universale avrebbe permesso di rafforzare le istituzioni attraverso un blocco tra la proprietà riformata e i contadini. Conclude Pasquale Villari: «senza liberare gli oppressi, non aumenterà fra noi il lavoro, non crescerà la produzione, non avremo la forza e la ricchezza necessaria ad una grande nazione».
(1-Continua)

Nessun commento: