sabato 26 settembre 2009

SPECIALE ENCICLICA "CARITAS IN VERITATE" - L'ENCICLICA E IL MONDO DEL LAVORO - III (53.ESIMA PARTE)

L'Arcivescovo Crepaldi
presenta l’enciclica
al Comitato esecutivo
della CISL ROMA
17 settembre 2009
Tratto da ZENIT.org
6. Qualcuno ha osservato che la Caritas in veritate si occupa poco del lavoro e del sindacato[1]. Se consideriamo lo spazio espressamente dedicato a questi problemi si può forse appoggiare questa valutazione. Ma se, come credo sia giusto fare, si tengono presenti le molteplici indicazioni che possono illuminare il mondo del lavoro, come per esempio quelle da me appena indicate, possiamo avere un quadro diverso. Vediamo allora, a questo punto della nostra riflessione, quali sono le ripercussioni nel mondo del lavoro della prospettiva generale che ho sopra indicato, ossia del precedere del ricevere sul fare.
Prima di tutto vale la pena fare almeno una breve riflessione su un aspetto che di solito viene scansato perché troppo retorico, ma che invece, a mio avviso, ha un considerevole significato pratico e concreto. Anche per il lavoro vale il principio che il suo scopo va oltre se stesso: scopo del lavoro non è il lavoro. Questo perché nel lavoro, in ogni lavoro, c’è qualcosa di gratuito, dato che la persona che lavora è sempre di più del suo lavoro. Era in fondo questa la distinzione tra lavoro in senso soggettivo e lavoro in senso oggettivo della Laborem exercens di Giovanni Paolo II. Di conseguenza c’è sempre una quota di lavoro non pagato o, meglio, che esula dal contratto di lavoro stesso, che si presuppone e che è l’anima stessa del lavoro[2]. Anche per il lavoro vale il principio che i presupposti che non si possono produrre, sono le cose più importanti. E più concrete ed utili, alla fine. Infatti la vera ricchezza prodotta dal lavoro è soprattutto dovuta a questa parte non quantificabile, che esula dai numeri delle statistiche. Il lavoro come vocazione, possiamo dire, è l’aspetto economicamente più rilevante del lavoro. Il lavoro come tecnica è l’aspetto meno rilevate, anche economicamente. Tanto è vero che molti analisti si sono chiesti se una delle cause della crisi finanziaria ed economica sia proprio questa: l’indebolimento della percezione di quanto nel lavoro c’è necessariamente di irriducibile. Si sta perdendo il senso del lavoro come vocazione. Ripeto: non si tratta di retorica se ciò figura tra le possibili cause - e non all’ultimo posto - della crisi che stiamo attraversando. Mi sembra che questo sia importante per il sindacato, perché fa da linea portante per un certo modo di fare contrattazione. Si dice sempre, o spesso, che nella contrattazione si deve tenere presente la persona del lavoratore. Ma appunto dicendo questo si fa riferimento a quella dimensione del lavoro che trascende il lavoro in senso tecnico e che, se non c’è, debilita anche il lavoro in senso tecnico. Emergono qui aspetti relazionali, ambientali, partecipativi della contrattazione di notevole importanza per un sindacato moderno.
7. La Caritas in veritate ha alcuni passaggi molto interessanti e di grande novità quando afferma, con un certo coraggio per una enciclica, che oggi le espressioni profit e non profit non sono più sufficienti (n. 41). Vedo in questa affermazione una notevole capacità di lettura dei fenomeni attuali ed anche una grande capacità di indicare percorsi da battere. In effetti, la quantità di lavoratori che opera in contesti non indirizzati dal self interest sono molti: «I mercati degli economisti - interazioni di attori economici individualistici, competitivi e self-interested - sono veramente molto difficili da trovare. La maggior parte della gente lavora a casa o in grandi organizzazioni - imprese, università, ospedali. Molti lavorano nei vari settori e agenzie del governo, che gioca un ruolo economico dominante non di mercato. Il lavoro domestico è chiaramente una attività non di mercato, ma così è presumibilmente anche per la maggior parte del lavoro all’interno di organizzazioni basate sul mercato. Come entità, queste possono essere competitive e self-interested (se si possono attribuire questi aggettivi a delle entità), ma per le persone che vi lavorano esse sono prima di tutto organizzazioni gerarchiche che promuovono uno sforzo cooperativo verso certi beni. Se si guarda alla moderna economia come un tutto, la competizione, che pure è presente, svolge un ruolo meno significativo delle leggi, dei regolamenti e dei costumi»[3].
8. Oltre che un dato di fatto così motivabile, l’osservazione di Benedetto XVI è confermata dalle tendenze in corso. Un’impresa sociale, nella forma per esempio della cooperativa, non è propriamente né profit né non profit. Una Società per azioni che stabilisca dei patti parasociali secondo i quali il 30 per cento degli utili vanno destinati a potenziamento delle imprese partners nel terzo mondo; oppure una società di commercio equo e trasparente che garantisca il rispetto delle clausole sociali ma in modo veramente trasparente; oppure una Community Foundation o le imprese che aderiscono alla cosiddetta “economia di comunione”: tutte queste realtà esulano dalla distinzione profit e non profit[4]. Ammettiamo che le scuole, come sembrava da un certo progetto di riforma, si trasformassero in fondazioni: sarebbero collocabili nel profit o nel non profit?
(3-Continua)

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