21 settembre 2009
Tratto da ZENIT.org
Che cosa è successo, in Italia, da rendere necessario mettere per iscritto, anzi, scrivere una legge su come agire verso le persone ammalate, disabili, vicine alla morte? Come mai una materia, che fino ad ora era definita dalla deontologia nell’ambito del diritto e dalla “scienza e coscienza” dei medici nell’ambito etico, merita l’interesse della legislazione?
Se comprendiamo bene i motivi, forse capiremo meglio quale è l’urgenza che ci interpella. Sul piano delle idee, abbiamo smarrito una visione condivisa del senso del vivere, del soffrire e del morire. Di conseguenza, sul piano dei comportamenti, si sono moltiplicate le richieste di un allargamento della autodeterminazione dei pazienti, fino ad ipotizzare la legittimità non solo e non tanto della libertà di scelta delle terapie cui sottoporsi, ma anche della scelta di continuare o interrompere la propria vita.
Non si può negare che la vicenda di Eluana Englaro abbia portato con grande drammaticità alla ribalta qualcosa che da tempo si agitava nei dibattiti e nei confronti tra diverse prospettive antropologiche. Eluana è stata privata di un sostegno che le garantiva la sopravvivenza a causa del pronunciamento di un giudice: per la prima volta una sentenza ha permesso a personale medico e infermieristico di agire in modo difforme dalla buona pratica clinica (la quale implica di ovviare alle difficoltà e agli impedimenti dei pazienti), reputando che il bene di Eluana - quello che a detta di suo padre lei avrebbe scelto come bene - era morire piuttosto che continuare a vivere.
La gravità di questo fatto - di un giudice o di un gruppo di giudici che con una sentenza stabilisca la correttezza di un atto medico contrario al primo dei doveri medici, quel non nocere che dal V secolo avanti Cristo sta alla base dell’esercizio della medicina - è ciò che rende oggi necessaria una legge. Il cambiamento di mentalità che ha portato a questo, che ha convinto tanti della necessità di tutelarsi da una ipotetica violenza dei medici sui pazienti, che ha diffuso l’idea che la qualità della vita si possa tradurre con la vita di qualità, che ha insinuato che la morte possa essere una terapia, questo è un problema educativo, anzi, una vera emergenza educativa, che certamente non si risolve a colpi di sentenze o di leggi. Ma mai dovrebbe essere dimenticata la valenza anche educativa delle legislazioni. Mentre alle difficoltà educative si risponde con un impegno lungimirante, sapiente e appassionato volto a formare persone, e dunque necessariamente collocato nel medio-lungo termine, alle situazioni concrete di criticità si risponde con il tempismo dettato dalle circostanze.
Che caratteristiche deve avere allora la legge sul fine-vita, per garantire almeno quel minimo etico che difenda l’umano dall’uomo, per stabilire un favor vitae, per educare ad avere sempre la massima cura e rispetto di ogni essere umano indipendentemente dalle sue condizioni di salute? Si è giudicato che fosse utile che chiunque lo desideri possa esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, rendendo dunque possibili le cosiddette DAT, le dichiarazioni anticipate di trattamento. A mio personalissimo avviso questa è già una piccola sconfitta, quella di un mondo medico che non è riuscito a persuadere sempre che l’interesse medico è comune a quello dei propri pazienti, avversario delle malattie e non delle persone, rivolto al bene, dedicato al prendersi cura anche quando non è in grado di guarire. Comunque sia, le DAT non possono essere il laccio della professione medica, né l’alibi per rifiutare le responsabilità, men che meno uno strumento disinvoltamente utilizzato per risparmiare sulla spesa dei sistemi sanitari. Potranno e dovranno essere uno strumento in più nella costruzione di un bel rapporto medico-paziente; strumento, appunto.
Sarà fondamentale ora l’approvazione di una legge che collochi l’alimentazione e l’idratazione fuori dal terreno di competenza delle DAT: perché essere alimentati e idratati quando il corpo ha necessità di ricevere acqua e sostanze nutritive ed è in grado di assimilarle e non serve altro che somministrarle non può essere altro che un aspetto del prendersi cura dell’ammalato o del disabile, che da soli non riescono a bere e mangiare. Smettere di fornire questi nutrienti quando ancora raggiungono lo scopo per cui sono pensati è troppo pericolosamente simile a smettere di alimentare un neonato o un anziano solo perché non li vogliamo più in carico.
Bisognerà che la legge non obblighi alcun medico a mettere in atto o a sospendere una terapia contrariamente al proprio convincimento clinico ed etico. Le volontà del paziente, ben conosciute in un corretto rapporto di alleanza terapeutica, saranno sempre da tenersi in profonda e rispettosa considerazione, ma non possono mettere un medico con le spalle al muro, dal momento che anche l’indipendenza della professionalità del curante è un valore fondamentale. Non si è forse esigito sempre dai medici l’indipendenza del giudizio clinico e terapeutico? Non si è decretato una volta per tutte a Norimberga, a Parigi e a Oviedo che il medico deve obbedire per primi ai principi di benevolenza e non-maleficienza?
Parlamento e società civile possono essere certi che i medici sono ben consapevoli che l’accanimento terapeutico come l’abbandono del malato sono atti molto lontani da un corretto esercizio della professione, che sono in agguato quando si presume della scienza e non si guarda alla persona ammalata con realismo, e quando la si guarda come un inutile fardello di sofferenza e di peso. Così come è sotto gli occhi di tutti che il vero pericolo non è lo spreco di risorse umane ed economiche, ma la mancanza di queste risorse. La recentissima approvazione di una legge che incoraggia e sostiene le cure palliative è un buon segnale di attenzione ai bisogni reali degli ammalati e delle loro famiglie, poiché è ampiamente dimostrato che, là dove l’ideologia dell’autodeterminazione non ha ancora avvelenato la percezione del reale, ciò di cui si sente davvero il bisogno è la cura, l’assistenza competente, la condivisione della sofferenza, la vicinanza umana.
Sarà fondamentale che l’approvazione di questa legge cosiddetta sul fine-vita arrivi presto, perché già troppo tempo è passato ad aggravare la confusione indotta dalle terminologie specialistiche e difficili (e non solo), mentre la gente comune è disorientata e non sa - ovviamente - distinguere tra stati di incoscienza, coma, stati vegetativi, stato di grave disabilità, diagnosi di morte imminente e prognosi infausta. Anche questo obiettivo di maggior chiarezza e presa di coscienza sta alla base della campagna “Liberi per Vivere”, lanciata da Scienza & Vita proprio per illustrare i fatti e aiutare quella consapevolezza che è premessa necessaria per giudizi personali responsabili.
Suonano sospetti, nelle vicinanze, e ora all’inizio, della ripresa dell’iter in Parlamento della legge, gli appelli a lasciar perdere, a prendersi ancora tempo di riflessione per cambiare quel ddl Calabrò che già è stato approvato al Senato, a procedere ancora a colpi di sentenze, quasi con l’auspicio che ciò che non si riesce ad ottenere dal legislatore si otterrà introducendo nella prassi una propensione eutanasica. Richiamandosi ad una autodeterminazione assoluta, non mancano nemmeno coloro che vorrebbero rendere i medici poco più che esecutori di desideri, allargando anche alla morte il già ampio ambito in cui ci si rivolge al “competente sanitario” per ottenere ciò che si esige: un figlio, un figlio sano, un figlio “su misura”, un cambiamento corporeo, una sostanza chimica per abortire.
Ci arrivano notizie inquietanti da altri Paesi, dove per esempio si organizzano legalmente i suicidi assistiti, con tanto di enfasi sulla raffinatezza delle procedure, e nei quali l’eutanasia è classificata come conquista di civiltà. Inquieta questa sottile propensione per la morte che si sta insinuando nelle “buone” società: in Svizzera si fa turismo tanatico, in Inghilterra la differenza tra assistenza e sospensione delle cure passa per le risposte a quattro domande di un questionario di valutazione della “qualità di vita” [1], in Spagna ci si avvia ad abortire a sedici anni senza dirlo a mamma e papà, se si ha paura che si arrabbino.
Deprimente questa “amicizia” con la morte, meglio che sia allontanata in fretta da casa nostra.
La dott.ssa Chiara Mantovani è vicepresidente dell’AMCI (Associazione Medici cattolici Italiani) e membro del Consiglio Direttivo di Scienza & Vita.
Se comprendiamo bene i motivi, forse capiremo meglio quale è l’urgenza che ci interpella. Sul piano delle idee, abbiamo smarrito una visione condivisa del senso del vivere, del soffrire e del morire. Di conseguenza, sul piano dei comportamenti, si sono moltiplicate le richieste di un allargamento della autodeterminazione dei pazienti, fino ad ipotizzare la legittimità non solo e non tanto della libertà di scelta delle terapie cui sottoporsi, ma anche della scelta di continuare o interrompere la propria vita.
Non si può negare che la vicenda di Eluana Englaro abbia portato con grande drammaticità alla ribalta qualcosa che da tempo si agitava nei dibattiti e nei confronti tra diverse prospettive antropologiche. Eluana è stata privata di un sostegno che le garantiva la sopravvivenza a causa del pronunciamento di un giudice: per la prima volta una sentenza ha permesso a personale medico e infermieristico di agire in modo difforme dalla buona pratica clinica (la quale implica di ovviare alle difficoltà e agli impedimenti dei pazienti), reputando che il bene di Eluana - quello che a detta di suo padre lei avrebbe scelto come bene - era morire piuttosto che continuare a vivere.
La gravità di questo fatto - di un giudice o di un gruppo di giudici che con una sentenza stabilisca la correttezza di un atto medico contrario al primo dei doveri medici, quel non nocere che dal V secolo avanti Cristo sta alla base dell’esercizio della medicina - è ciò che rende oggi necessaria una legge. Il cambiamento di mentalità che ha portato a questo, che ha convinto tanti della necessità di tutelarsi da una ipotetica violenza dei medici sui pazienti, che ha diffuso l’idea che la qualità della vita si possa tradurre con la vita di qualità, che ha insinuato che la morte possa essere una terapia, questo è un problema educativo, anzi, una vera emergenza educativa, che certamente non si risolve a colpi di sentenze o di leggi. Ma mai dovrebbe essere dimenticata la valenza anche educativa delle legislazioni. Mentre alle difficoltà educative si risponde con un impegno lungimirante, sapiente e appassionato volto a formare persone, e dunque necessariamente collocato nel medio-lungo termine, alle situazioni concrete di criticità si risponde con il tempismo dettato dalle circostanze.
Che caratteristiche deve avere allora la legge sul fine-vita, per garantire almeno quel minimo etico che difenda l’umano dall’uomo, per stabilire un favor vitae, per educare ad avere sempre la massima cura e rispetto di ogni essere umano indipendentemente dalle sue condizioni di salute? Si è giudicato che fosse utile che chiunque lo desideri possa esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, rendendo dunque possibili le cosiddette DAT, le dichiarazioni anticipate di trattamento. A mio personalissimo avviso questa è già una piccola sconfitta, quella di un mondo medico che non è riuscito a persuadere sempre che l’interesse medico è comune a quello dei propri pazienti, avversario delle malattie e non delle persone, rivolto al bene, dedicato al prendersi cura anche quando non è in grado di guarire. Comunque sia, le DAT non possono essere il laccio della professione medica, né l’alibi per rifiutare le responsabilità, men che meno uno strumento disinvoltamente utilizzato per risparmiare sulla spesa dei sistemi sanitari. Potranno e dovranno essere uno strumento in più nella costruzione di un bel rapporto medico-paziente; strumento, appunto.
Sarà fondamentale ora l’approvazione di una legge che collochi l’alimentazione e l’idratazione fuori dal terreno di competenza delle DAT: perché essere alimentati e idratati quando il corpo ha necessità di ricevere acqua e sostanze nutritive ed è in grado di assimilarle e non serve altro che somministrarle non può essere altro che un aspetto del prendersi cura dell’ammalato o del disabile, che da soli non riescono a bere e mangiare. Smettere di fornire questi nutrienti quando ancora raggiungono lo scopo per cui sono pensati è troppo pericolosamente simile a smettere di alimentare un neonato o un anziano solo perché non li vogliamo più in carico.
Bisognerà che la legge non obblighi alcun medico a mettere in atto o a sospendere una terapia contrariamente al proprio convincimento clinico ed etico. Le volontà del paziente, ben conosciute in un corretto rapporto di alleanza terapeutica, saranno sempre da tenersi in profonda e rispettosa considerazione, ma non possono mettere un medico con le spalle al muro, dal momento che anche l’indipendenza della professionalità del curante è un valore fondamentale. Non si è forse esigito sempre dai medici l’indipendenza del giudizio clinico e terapeutico? Non si è decretato una volta per tutte a Norimberga, a Parigi e a Oviedo che il medico deve obbedire per primi ai principi di benevolenza e non-maleficienza?
Parlamento e società civile possono essere certi che i medici sono ben consapevoli che l’accanimento terapeutico come l’abbandono del malato sono atti molto lontani da un corretto esercizio della professione, che sono in agguato quando si presume della scienza e non si guarda alla persona ammalata con realismo, e quando la si guarda come un inutile fardello di sofferenza e di peso. Così come è sotto gli occhi di tutti che il vero pericolo non è lo spreco di risorse umane ed economiche, ma la mancanza di queste risorse. La recentissima approvazione di una legge che incoraggia e sostiene le cure palliative è un buon segnale di attenzione ai bisogni reali degli ammalati e delle loro famiglie, poiché è ampiamente dimostrato che, là dove l’ideologia dell’autodeterminazione non ha ancora avvelenato la percezione del reale, ciò di cui si sente davvero il bisogno è la cura, l’assistenza competente, la condivisione della sofferenza, la vicinanza umana.
Sarà fondamentale che l’approvazione di questa legge cosiddetta sul fine-vita arrivi presto, perché già troppo tempo è passato ad aggravare la confusione indotta dalle terminologie specialistiche e difficili (e non solo), mentre la gente comune è disorientata e non sa - ovviamente - distinguere tra stati di incoscienza, coma, stati vegetativi, stato di grave disabilità, diagnosi di morte imminente e prognosi infausta. Anche questo obiettivo di maggior chiarezza e presa di coscienza sta alla base della campagna “Liberi per Vivere”, lanciata da Scienza & Vita proprio per illustrare i fatti e aiutare quella consapevolezza che è premessa necessaria per giudizi personali responsabili.
Suonano sospetti, nelle vicinanze, e ora all’inizio, della ripresa dell’iter in Parlamento della legge, gli appelli a lasciar perdere, a prendersi ancora tempo di riflessione per cambiare quel ddl Calabrò che già è stato approvato al Senato, a procedere ancora a colpi di sentenze, quasi con l’auspicio che ciò che non si riesce ad ottenere dal legislatore si otterrà introducendo nella prassi una propensione eutanasica. Richiamandosi ad una autodeterminazione assoluta, non mancano nemmeno coloro che vorrebbero rendere i medici poco più che esecutori di desideri, allargando anche alla morte il già ampio ambito in cui ci si rivolge al “competente sanitario” per ottenere ciò che si esige: un figlio, un figlio sano, un figlio “su misura”, un cambiamento corporeo, una sostanza chimica per abortire.
Ci arrivano notizie inquietanti da altri Paesi, dove per esempio si organizzano legalmente i suicidi assistiti, con tanto di enfasi sulla raffinatezza delle procedure, e nei quali l’eutanasia è classificata come conquista di civiltà. Inquieta questa sottile propensione per la morte che si sta insinuando nelle “buone” società: in Svizzera si fa turismo tanatico, in Inghilterra la differenza tra assistenza e sospensione delle cure passa per le risposte a quattro domande di un questionario di valutazione della “qualità di vita” [1], in Spagna ci si avvia ad abortire a sedici anni senza dirlo a mamma e papà, se si ha paura che si arrabbino.
Deprimente questa “amicizia” con la morte, meglio che sia allontanata in fretta da casa nostra.
La dott.ssa Chiara Mantovani è vicepresidente dell’AMCI (Associazione Medici cattolici Italiani) e membro del Consiglio Direttivo di Scienza & Vita.
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