mercoledì 29 luglio 2009

SPECIALE ENCICLICA "CARITAS IN VERITATE" - SECONDA PARTE DEL DISCORSO DEL CARD. BERTONE AL SENATO ITALIANO (25.ESIMA PARTE)

22 luglio 2009
Tratto da ZENIT.org

La proposta dell'enciclica non è né di carattere ideologico né solo riservata a chi condivide la fede nella Rivelazione divina, ma si fonda su realtà antropologiche fondamentali, quali sono appunto la verità e la carità rettamente intese, o come dice la stessa enciclica, date all'uomo e da lui ricevute, non da lui prodotte arbitrariamente ("La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto "data". In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l'amore, "non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all'essere umano"", Caritas in veritate, n. 34). Benedetto XVI vuol ricordare a tutti che solo ancorandosi a questo duplice criterio della veritas e della caritas, fra loro inseparabilmente congiunte, si può costruire l'autentico bene dell'uomo, fatto per la verità e l'amore. Secondo il Santo Padre, "solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante" (n. 9).
Dopo questa indispensabile premessa, nella quale ho voluto evidenziare alcuni aspetti antropologici e teologici del testo pontificio, forse meno commentati dai servizi giornalistici, desidero esporre ora solo alcuni punti, senza avere la pretesa di coprire il vasto contenuto dell'
enciclica, di cui, peraltro, autorevoli commentatori, anche sulle pagine de "L'Osservatore Romano" o altrove, hanno già offerto specifici approfondimenti.
Un importante messaggio che ci viene dalla
Caritas in veritate è l'invito a superare l'ormai obsoleta dicotomia tra la sfera dell'economico e la sfera del sociale. La modernità ci ha lasciato in eredità l'idea in base alla quale per poter operare nel campo dell'economia sia indispensabile mirare al profitto ed essere animati prevalentemente dal proprio interesse; come a dire che non si è pienamente imprenditori se non si persegue la massimizzazione del profitto. In caso contrario, ci si dovrebbe accontentare di far parte della sfera del sociale.
Questa concettualizzazione, che confonde l'economia di mercato che è il genus con una sua particolare species quale è il sistema capitalistico, ha portato ad identificare l'economia con il luogo della produzione della ricchezza (o del reddito) e il sociale con il luogo della solidarietà per un'equa distribuzione della stessa.
La
Caritas in veritate ci dice, invece, che fare impresa è possibile anche quando si perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all'azione da motivazioni di tipo pro-sociale. È questo un modo concreto, anche se non l'unico, di colmare il divario tra l'economico e il sociale dato che un agire economico che non incorporasse al proprio interno la dimensione del sociale non sarebbe eticamente accettabile, come è altrettanto vero che un sociale meramente redistributivo, che non facesse i conti col vincolo delle risorse, non risulterebbe alla lunga sostenibile: prima di poter distribuire occorre, infatti, produrre.
Si deve essere particolarmente grati a
Benedetto XVI per aver voluto sottolineare il fatto che l'agire economico non è qualcosa di staccato e di alieno dai principi cardine della dottrina sociale della Chiesa che sono: centralità della persona umana; solidarietà; sussidiarietà; bene comune.
Occorre superare la concezione pratica in base alla quale i valori della dottrina sociale della Chiesa dovrebbero trovare spazio unicamente nelle opere di natura sociale, mentre agli esperti di efficienza spetterebbe il compito di guidare l'economia. È merito, certamente non secondario, di questa
enciclica quello di contribuire a porre rimedio a questa lacuna, che è culturale e politica ad un tempo.
Contrariamente a quel che si pensa non è l'efficienza il fundamentum divisionis per distinguere ciò che è impresa e ciò che non lo è, e questo per la semplice ragione che la categoria dell'efficienza appartiene all'ordine dei mezzi e non a quello dei fini. Infatti, si deve essere efficienti per conseguire al meglio il fine che liberamente si è scelto di dare alla propria azione. L'imprenditore che si lascia guidare da un'efficienza fine a se stessa rischia di scadere nell'efficientismo, che è una delle cause oggi più frequenti di distruzione della ricchezza, come la crisi economico-finanziaria in atto tristemente conferma.
Ampliando un istante la prospettiva del discorso, dire mercato significa dire competizione e ciò nel senso che non può esistere il mercato laddove non c'è pratica di competizione (anche se il contrario non è vero). E non v'è chi non veda come la fecondità della competizione stia nel fatto che essa implica la tensione, la dialettica che presuppone la presenza di un altro e la relazione con un altro. Senza tensione non c'è movimento, ma il movimento - ecco il punto - cui la tensione dà luogo può essere anche mortifero, cioè generatore di morte.
2-Continua

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