XXIX Domenica del Tempo Ordinario
17 ottobre 2010
Di padre Angelo del Favero
15 ottobre 2010
Di padre Angelo del Favero
15 ottobre 2010
Tratto da ZENIT.org
“Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: “In una città viveva un giudice che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi da tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente ad importunarmi”. E il Signore soggiunse: “Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio, non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,1-8).
Raccontando questa parabola, Gesù non poteva non rendersi conto del grido drammatico uscito mille anni prima dalla bocca del re Davide e risuonato per secoli in Israele: “Fino a quando per sempre Signore continuerai a dimenticarmi? Fino a quando per sempre mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando per sempre nell’anima mia addenserò pensieri, tristezza nel mio cuore tutto il giorno? Fino a quando per sempre su di me prevarrà il nemico?” (Salmo 13/12,1-3).
Il “per sempre” (omesso dal testo CEI) si trova nell’originale ebraico, ed ha questo significato: “C’è la speranza di un limite al dolore (“fino a quando?”), ma contemporaneamente c’è la paura ch’esso sia definitivo (“per sempre”). Il lamento oscilla, allora, tra illusione e disperazione, tra speranza e delusione, tra possibilità e assurdo. E’ il grido di un fedele che si sente abbandonato da Dio, divenuto ormai indifferente ed ostile, è quasi l’eco del respiro di dolore che sale continuamente dall’umanità”. (G. Ravasi, “I Salmi”, p. 74s).
E’ questo il grido di tutti i tempi che sale da ogni angolo della terra, poiché non c’è uomo la cui storia non sia segnata dal peccato e dalla morte. Penso, esemplarmente, al grido silenzioso dei più poveri tra i poveri, ai milioni di bambini uccisi ogni anno nel calore del grembo materno (o nel vetro di una provetta) e alle centinaia di migliaia di esseri umani vivi, immersi e dimenticati nell’azoto liquido da anni nei laboratori del peccato originale, dove l’uomo fabbrica l’uomo. Ognuno di questi figli non cessa di gridare a Dio e ad ognuno di noi, con la voce stessa della propria umanità: “Fino a quando per sempre continuerai a dimenticarmi?”.
A giudicare dall’assegnazione del premio Nobel a Robert Edwards, inventore della FIVET, la supplica sembra ancora inascoltata… E’ vero che il Salmo si chiude “come un canto...tutto circonfuso di felicità e di pace” (G. Ravasi), poichè il Signore ha finalmente sollevato il suo fedele dalla prova, tuttavia l’accorata, quadruplice, perenne domanda iniziale è il caso serio della preghiera: perché Dio, quando preghiamo, così spesso non ci esaudisce prontamente? perché ci fa aspettare tanto a lungo? In altre parole: come dobbiamo intendere la promessa di Gesù: “ Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”?
Naturalmente comprendiamo bene che la preghiera non può e non deve essere una macchina che distribuisce cose, e riconosciamo la necessità della pedagogia divina, per la quale “Dio ci fa un po’ aspettare, perché la preghiera perseverante rafforzi la nostra relazione con lui” (Vanhoye); tuttavia tali ragioni non lasciano del tutto soddisfatto il nostro cuore, dato che sembrano indebolire la portata meravigliosamente consolante dell’affermazione di Gesù: “Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”.
Ecco, noi vogliamo credere realmente alla verità di questa promessa di Gesù, al suo compiersi “hic et nunc” senza doverne attendere l’esaudimento in un lontano futuro, magari escatologico, accontentandoci per ora del fatto che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio...” (Rm 8,28). Non ci attendiamo una risposta materialmente uguale alla domanda del nostro dolore, ma confidiamo nella promessa di quel “prontamente”, così umano, così necessario al nostro cuore desolato.
Alla speranza di un tale pronto esaudimento sembra orientarci anche la domanda conclusiva di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
Questo “quando verrà”, fa forse pensare alla fine del mondo, e certo si tratta anche di quella, ma la venuta di Gesù è un fatto di oggi, accade ogni giorno sugli altari del mondo intero: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11). La venuta di Gesù è l’Eucaristia.
Nella Santa Messa il Signore Gesù viene, viene davvero, viene realmente con la sua carne e il suo sangue, viene con la sua Persona e rimane in mezzo a noi; e così, per mezzo della liturgia, Egli rinnova sacramentalmente l’evento unico della sua prima venuta, l’Incarnazione, mediante la quale, avendo assunto la nostra umanità, “Dio ci ha attirato in se stesso e…ci fa partecipare della sua relazione interiore. Così siamo nel suo essere Padre, Figlio e Spirito Santo, siamo all’interno del suo essere in relazione, siamo in relazione con Lui e Lui realmente ha creato relazione con noi” (Benedetto XVI al Sinodo per il Medio Oriente, 11 ottobre 2010).
L’Eucaristia è l’atto eterno, cosmico, irresistibile come la forza di un “buco nero”, che Gesù compie mentre muore sfinito sulla croce: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). La Messa è perciò il punto di contatto tra il Cielo e la terra, capace di far irrompere nel cuore del credente la potenza divina del Risorto.
Ricordiamone una figura evangelica: la donna affetta da emorragia (Mc 5,25-29), nella quale il flusso della Vita di Gesù ferma all’istante il flusso mortale del sangue grazie al contatto della sua mano tremante con il corpo del Signore. Qui l’umanità malata della donna (l’emorragia è simbolo di tutto ciò che annienta l’anima e toglie la gioia di vivere), entra in contatto con la Sacra Umanità di Cristo, contatto efficace non per il contatto fisico in sé, ma per l’atto di fede che lo ha generato.
Pensiamo ad una sfera che poggia su di un piano (il quale, per definizione geometrica è infinito). Piccola o grande che sia la sfera, è solo un punto che stabilisce il contatto con la superficie piana. Quel punto regge tutta la sfera, che in esso concentra il peso del suo contenuto. Se la sfera è il mondo, quel punto regge il mondo; se la sfera è il mio cuore, il peso è il mio dolore e quel punto lo concentra tutto in sè. Orbene, questo punto è l’Eucaristia, è l’atto liturgico della santa Messa. Ma l’Eucaristia è il Cuore vivo di Gesù che viene a toccare il mio cuore molto di più di una mano sul mantello. E dato che le proporzioni non stanno sul piano fisico, ma spirituale, è tutta l’estensione del piano che entra dentro la mia sfera attraverso il punto di contatto.
La domanda di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8), è in fondo un lieto annuncio. Essa significa che la promessa “farà giustizia prontamente”, si compie nella santa Messa, in ogni santa Messa, proprio quella che inizia tra un’ora, o quella cui parteciperò domani. Egli stabilisce il contatto. L’Eucaristia è il piano divino che scende dolcemente a toccare la sfera del cuore. Il punto è la mia fede. Sì, voglio avere una fede pura, efficace, come quella della donna che tocca il mantello di Gesù. Non è difficile. L’efficacia dipende dalla sincerità della volontà. Possiamo sempre essere veri davanti a Dio e a noi stessi. Basta volerlo. Un atto di fede efficace è, ad esempio, questo: “Padre, mi abbandono a Te, fa’ di me quello che vuoi. Qualsiasi cosa tu faccia, io ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto. Sia fatta in me la tua volontà così come in tutto il creato; null’altro desidero mio Dio. Nelle tue mani abbandono la mia vita, io te la offro, Signore, con tutto il cuore perché ti amo, e sento il bisogno di donarmi, di mettermi nelle tue mani senza condizioni, con infinita fiducia, perché sei mio Padre.”(Frère Charles de Jesùs).
Io penso che, incoscientemente, anche i bimbi concepiti e non accolti, anche quelli a 200 gradi sotto zero compiono quest’atto di abbandono perfetto, in forza della loro stessa umanità che il Verbo ha assunto e sanato. Me lo fanno credere le parole che Cristo dice entrando nel mondo, cioè all’inizio della sua vita terrena nel grembo di Maria: “Allora ho detto: 'Ecco, io vengo per fare o Dio la tua volontà'” (Eb 10,7).
Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
Raccontando questa parabola, Gesù non poteva non rendersi conto del grido drammatico uscito mille anni prima dalla bocca del re Davide e risuonato per secoli in Israele: “Fino a quando per sempre Signore continuerai a dimenticarmi? Fino a quando per sempre mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando per sempre nell’anima mia addenserò pensieri, tristezza nel mio cuore tutto il giorno? Fino a quando per sempre su di me prevarrà il nemico?” (Salmo 13/12,1-3).
Il “per sempre” (omesso dal testo CEI) si trova nell’originale ebraico, ed ha questo significato: “C’è la speranza di un limite al dolore (“fino a quando?”), ma contemporaneamente c’è la paura ch’esso sia definitivo (“per sempre”). Il lamento oscilla, allora, tra illusione e disperazione, tra speranza e delusione, tra possibilità e assurdo. E’ il grido di un fedele che si sente abbandonato da Dio, divenuto ormai indifferente ed ostile, è quasi l’eco del respiro di dolore che sale continuamente dall’umanità”. (G. Ravasi, “I Salmi”, p. 74s).
E’ questo il grido di tutti i tempi che sale da ogni angolo della terra, poiché non c’è uomo la cui storia non sia segnata dal peccato e dalla morte. Penso, esemplarmente, al grido silenzioso dei più poveri tra i poveri, ai milioni di bambini uccisi ogni anno nel calore del grembo materno (o nel vetro di una provetta) e alle centinaia di migliaia di esseri umani vivi, immersi e dimenticati nell’azoto liquido da anni nei laboratori del peccato originale, dove l’uomo fabbrica l’uomo. Ognuno di questi figli non cessa di gridare a Dio e ad ognuno di noi, con la voce stessa della propria umanità: “Fino a quando per sempre continuerai a dimenticarmi?”.
A giudicare dall’assegnazione del premio Nobel a Robert Edwards, inventore della FIVET, la supplica sembra ancora inascoltata… E’ vero che il Salmo si chiude “come un canto...tutto circonfuso di felicità e di pace” (G. Ravasi), poichè il Signore ha finalmente sollevato il suo fedele dalla prova, tuttavia l’accorata, quadruplice, perenne domanda iniziale è il caso serio della preghiera: perché Dio, quando preghiamo, così spesso non ci esaudisce prontamente? perché ci fa aspettare tanto a lungo? In altre parole: come dobbiamo intendere la promessa di Gesù: “ Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”?
Naturalmente comprendiamo bene che la preghiera non può e non deve essere una macchina che distribuisce cose, e riconosciamo la necessità della pedagogia divina, per la quale “Dio ci fa un po’ aspettare, perché la preghiera perseverante rafforzi la nostra relazione con lui” (Vanhoye); tuttavia tali ragioni non lasciano del tutto soddisfatto il nostro cuore, dato che sembrano indebolire la portata meravigliosamente consolante dell’affermazione di Gesù: “Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”.
Ecco, noi vogliamo credere realmente alla verità di questa promessa di Gesù, al suo compiersi “hic et nunc” senza doverne attendere l’esaudimento in un lontano futuro, magari escatologico, accontentandoci per ora del fatto che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio...” (Rm 8,28). Non ci attendiamo una risposta materialmente uguale alla domanda del nostro dolore, ma confidiamo nella promessa di quel “prontamente”, così umano, così necessario al nostro cuore desolato.
Alla speranza di un tale pronto esaudimento sembra orientarci anche la domanda conclusiva di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
Questo “quando verrà”, fa forse pensare alla fine del mondo, e certo si tratta anche di quella, ma la venuta di Gesù è un fatto di oggi, accade ogni giorno sugli altari del mondo intero: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11). La venuta di Gesù è l’Eucaristia.
Nella Santa Messa il Signore Gesù viene, viene davvero, viene realmente con la sua carne e il suo sangue, viene con la sua Persona e rimane in mezzo a noi; e così, per mezzo della liturgia, Egli rinnova sacramentalmente l’evento unico della sua prima venuta, l’Incarnazione, mediante la quale, avendo assunto la nostra umanità, “Dio ci ha attirato in se stesso e…ci fa partecipare della sua relazione interiore. Così siamo nel suo essere Padre, Figlio e Spirito Santo, siamo all’interno del suo essere in relazione, siamo in relazione con Lui e Lui realmente ha creato relazione con noi” (Benedetto XVI al Sinodo per il Medio Oriente, 11 ottobre 2010).
L’Eucaristia è l’atto eterno, cosmico, irresistibile come la forza di un “buco nero”, che Gesù compie mentre muore sfinito sulla croce: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). La Messa è perciò il punto di contatto tra il Cielo e la terra, capace di far irrompere nel cuore del credente la potenza divina del Risorto.
Ricordiamone una figura evangelica: la donna affetta da emorragia (Mc 5,25-29), nella quale il flusso della Vita di Gesù ferma all’istante il flusso mortale del sangue grazie al contatto della sua mano tremante con il corpo del Signore. Qui l’umanità malata della donna (l’emorragia è simbolo di tutto ciò che annienta l’anima e toglie la gioia di vivere), entra in contatto con la Sacra Umanità di Cristo, contatto efficace non per il contatto fisico in sé, ma per l’atto di fede che lo ha generato.
Pensiamo ad una sfera che poggia su di un piano (il quale, per definizione geometrica è infinito). Piccola o grande che sia la sfera, è solo un punto che stabilisce il contatto con la superficie piana. Quel punto regge tutta la sfera, che in esso concentra il peso del suo contenuto. Se la sfera è il mondo, quel punto regge il mondo; se la sfera è il mio cuore, il peso è il mio dolore e quel punto lo concentra tutto in sè. Orbene, questo punto è l’Eucaristia, è l’atto liturgico della santa Messa. Ma l’Eucaristia è il Cuore vivo di Gesù che viene a toccare il mio cuore molto di più di una mano sul mantello. E dato che le proporzioni non stanno sul piano fisico, ma spirituale, è tutta l’estensione del piano che entra dentro la mia sfera attraverso il punto di contatto.
La domanda di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8), è in fondo un lieto annuncio. Essa significa che la promessa “farà giustizia prontamente”, si compie nella santa Messa, in ogni santa Messa, proprio quella che inizia tra un’ora, o quella cui parteciperò domani. Egli stabilisce il contatto. L’Eucaristia è il piano divino che scende dolcemente a toccare la sfera del cuore. Il punto è la mia fede. Sì, voglio avere una fede pura, efficace, come quella della donna che tocca il mantello di Gesù. Non è difficile. L’efficacia dipende dalla sincerità della volontà. Possiamo sempre essere veri davanti a Dio e a noi stessi. Basta volerlo. Un atto di fede efficace è, ad esempio, questo: “Padre, mi abbandono a Te, fa’ di me quello che vuoi. Qualsiasi cosa tu faccia, io ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto. Sia fatta in me la tua volontà così come in tutto il creato; null’altro desidero mio Dio. Nelle tue mani abbandono la mia vita, io te la offro, Signore, con tutto il cuore perché ti amo, e sento il bisogno di donarmi, di mettermi nelle tue mani senza condizioni, con infinita fiducia, perché sei mio Padre.”(Frère Charles de Jesùs).
Io penso che, incoscientemente, anche i bimbi concepiti e non accolti, anche quelli a 200 gradi sotto zero compiono quest’atto di abbandono perfetto, in forza della loro stessa umanità che il Verbo ha assunto e sanato. Me lo fanno credere le parole che Cristo dice entrando nel mondo, cioè all’inizio della sua vita terrena nel grembo di Maria: “Allora ho detto: 'Ecco, io vengo per fare o Dio la tua volontà'” (Eb 10,7).
Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
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