XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
10 ottobre 2010
Di padre Angelo del Favero
8 ottobre 2010
Di padre Angelo del Favero
8 ottobre 2010
Tratto da ZENIT.org
“Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E gli disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” (Lc 17,11-19).
La Bibbia raggruppa sotto il nome di “lebbra” svariate malattie della pelle, la più grave delle quali è la lebbra vera e propria, il terribile morbo che, nell’immaginario comune, più di ogni altra malattia può sfigurare il volto umano.
Il Vangelo ci presenta oggi un gruppo di dieci lebbrosi, che si fanno incontro a Gesù con timore e tremore, consapevoli del rischio di trasmettergli la loro impurità, cosa che comportava tassativamente l’esclusione dal culto e dalla società. Essi perciò si fermano a debita distanza, invocando pietà ad una sola voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13).
A quel tempo si credeva che la lebbra fosse una punizione divina, e che il tempo definitivo della salvezza sarebbe stato inaugurato dalla sua scomparsa: la guarigione operata da Gesù annunciava, perciò, l’inizio di tale compimento messianico. In effetti, Gesù congeda il samaritano guarito dicendogli: “Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19); ed ecco: più in profondità delle piaghe scomparse, il cuore di questo straniero è toccato dal Signore, che da lebbroso lo trasforma in discepolo, visto e lodato l’umile gesto della sua adorazione riconoscente.
Così, tre anni fa, papa Benedetto commentava questo Vangelo: “In verità, la lebbra che realmente deturpa l’uomo e la società è il peccato; sono l’orgoglio e l’egoismo che generano nell’animo umano indifferenza, odio e violenza. Questa lebbra dello spirito, che sfigura il volto dell’umanità, nessuno può guarirla, se non Dio, che è Amore. Aprendo il cuore a Dio, la persona che si converte vien sanata interiormente dal male.” (Benedetto XVI, Angelus, 14/10/2007).
Possiamo ora domandarci quale significato può avere il fatto che l’evangelista precisa il numero dei lebbrosi guariti (dieci). Dieci sono le Parole del Decalogo, che Dio rivolge direttamente al popolo interpellandolo con il “tu” (Es 20): dieci comandamenti scolpiti sulla pietra del Sinai per regolare la condotta religiosa e morale non solo del popolo di Israele, ma anche di ogni uomo.
Le Dieci Parole, infatti, costituiscono l’espressione fondamentale della legge naturale, “ scritta e scolpita nell’animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare” (Giovanni Paolo II, Enciclica “Veritatis splendor”, n. 44).
Perciò il numero dieci orienta lo sguardo verso la profondità della persona, là dove Dio ha lasciato l’uomo “in mano al suo consiglio” (Sir 15,14; cfr Veritatis Splendor, n. 39). Questo luogo interiore è il sacrario della coscienza, in cui l’uomo entra in contatto con la Verità che lo salva e lo fa essere veramente libero.
A queste fondamentali dieci Parole, Dio (se posso dir così) ne ha aggiunto un’altra: la parola “grazie”. E’ il dono dell’inclinazione del cuore alla riconoscenza.
A dire il vero, l’esempio contrario e paradigmatico dei nove lebbrosi ingrati, sembra negare questa mia affermazione. In effetti, molto spesso vediamo che nemmeno la dura scuola della sofferenza riesce a suscitare nell’uomo lo stupore umile e riconoscente per il dono della vita, aprendogli il cuore a quella fondamentale verità personale che è la dipendenza nell’amore da Dio, suo Creatore e Padre. Ma se ciò accade è per il fatto che il peccato di orgoglio e di egoismo inquinano la purezza originale della coscienza, accecandola e deturpandola al punto da renderla irriconoscibile come il volto di un lebbroso, e così essa perde la riconoscenza come atteggiamento profondo naturale.
Ecco una mia piccola testimonianza al riguardo. Stamane, subito dopo aver dato il Corpo del Signore ad un giovane, ho accarezzato il volto del bambino che mi fissava dalle sue braccia (avrà avuto forse un anno di età), e lui mi ha prontamente ricambiato con un radioso sorriso.
Evidentemente il suo non è stato un atto volontario, ma riflesso, spontaneo, segno che nell’esperienza naturale della gratificazione è inscritta anche un’attitudine a ringraziare per ciò che la persona riceve di bello e di buono.
Il sorriso è il modo più facile e semplice di dire “grazie”, anche per l’adulto. Il sorriso dell’essere umano è paragonabile all’aprirsi del fiore ai primi raggi del sole: così l’uomo, la cui vita Dio fa germinare nel grembo, reca in sé la riconoscenza come un dato primordiale, ed ogni gesto d’amore è in grado di suscitarla mentre il cuore si apre come un fiore.
Concludendo il commento al Vangelo che ho citato, Benedetto XVI ha detto:“Chi, come il samaritano sanato, sa ringraziare, dimostra di non considerare tutto come dovuto, ma come un dono che, anche quando giunge attraverso gli uomini o la natura, proviene ultimamente da Dio. La fede comporta allora aprirsi alla grazia del Signore; riconoscere che tutto è dono, tutto è grazia. Quale tesoro è nascosto in una piccola parola: “grazie”!”
Tutto è dono, tutto è grazia, a partire dal dono e dalla grazia della vita.
Allora, oggi, il nostro grazie all’“Autore della vita” (At 3,15) diventa un infinito “grazie!” che sale dal profondo di un cuore purificato:
“Grazie infinite a Te, Padre, Fonte della mia vita,
perchè mi hai creato a Tua immagine nel seno di mia madre, figlio nel Figlio, per una vocazione specialissima di eterna felicità;
Grazie infinite a Te, Signore Gesù, Autore della mia vita,
perché dal seno del Padre mi sei venuto incontro, facendoti uomo nel grembo di Maria;
Grazie infinite a Te, Spirito Santo,
perché sei l’amore, la gioia, la novità, l’energia divina della mia vita.
Grazie infinite, Gesù mio, Vita della mia vita,
perché mi hai amato, mi hai cercato e mi hai trovato mentre ero ancora peccatore, condannato per l’eternità a vivere da straniero, lontano dalla casa del Padre;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché non Ti sei fermato a distanza per guarirmi con la Tua Parola, ma mi hai raggiunto, mi hai abbracciato, mi hai sanato facendoti lebbroso come me;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché Ti sei lasciato piagare mortalmente da me, mentre io dalle Tue piaghe sono stato salvato dalla morte;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché per custodire il dono della libertà mi donato il senso del peccato, la luce della coscienza, il moto della riconoscenza;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché come hai fatto con me, così a tutti i miei cari sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché mi hai donato la fede, che vale più della vita e per essa hai fatto di me una persona nuova;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono della preghiera che mi abilita al dialogo con Te, e mi insegna a percepire il mormorio leggero della Tua voce amica nell’intimo del cuore;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono sublime dell’Eucaristia e del sacerdote, per mezzo del quale mi restituisci settanta volte sette tutti i doni del tuo amore fedele perduti per mia colpa;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono indicibile di Tua Madre, la “Piena di grazia”: la sua tenerezza mi avvolge giorno e notte, e dalle sue mani ricevo grazia su grazia. So che Ella mi assisterà con la sua presenza e la sua preghiera nell’ora di quella morte che la tua volontà avrà stabilito per me”.
Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
La Bibbia raggruppa sotto il nome di “lebbra” svariate malattie della pelle, la più grave delle quali è la lebbra vera e propria, il terribile morbo che, nell’immaginario comune, più di ogni altra malattia può sfigurare il volto umano.
Il Vangelo ci presenta oggi un gruppo di dieci lebbrosi, che si fanno incontro a Gesù con timore e tremore, consapevoli del rischio di trasmettergli la loro impurità, cosa che comportava tassativamente l’esclusione dal culto e dalla società. Essi perciò si fermano a debita distanza, invocando pietà ad una sola voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13).
A quel tempo si credeva che la lebbra fosse una punizione divina, e che il tempo definitivo della salvezza sarebbe stato inaugurato dalla sua scomparsa: la guarigione operata da Gesù annunciava, perciò, l’inizio di tale compimento messianico. In effetti, Gesù congeda il samaritano guarito dicendogli: “Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19); ed ecco: più in profondità delle piaghe scomparse, il cuore di questo straniero è toccato dal Signore, che da lebbroso lo trasforma in discepolo, visto e lodato l’umile gesto della sua adorazione riconoscente.
Così, tre anni fa, papa Benedetto commentava questo Vangelo: “In verità, la lebbra che realmente deturpa l’uomo e la società è il peccato; sono l’orgoglio e l’egoismo che generano nell’animo umano indifferenza, odio e violenza. Questa lebbra dello spirito, che sfigura il volto dell’umanità, nessuno può guarirla, se non Dio, che è Amore. Aprendo il cuore a Dio, la persona che si converte vien sanata interiormente dal male.” (Benedetto XVI, Angelus, 14/10/2007).
Possiamo ora domandarci quale significato può avere il fatto che l’evangelista precisa il numero dei lebbrosi guariti (dieci). Dieci sono le Parole del Decalogo, che Dio rivolge direttamente al popolo interpellandolo con il “tu” (Es 20): dieci comandamenti scolpiti sulla pietra del Sinai per regolare la condotta religiosa e morale non solo del popolo di Israele, ma anche di ogni uomo.
Le Dieci Parole, infatti, costituiscono l’espressione fondamentale della legge naturale, “ scritta e scolpita nell’animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare” (Giovanni Paolo II, Enciclica “Veritatis splendor”, n. 44).
Perciò il numero dieci orienta lo sguardo verso la profondità della persona, là dove Dio ha lasciato l’uomo “in mano al suo consiglio” (Sir 15,14; cfr Veritatis Splendor, n. 39). Questo luogo interiore è il sacrario della coscienza, in cui l’uomo entra in contatto con la Verità che lo salva e lo fa essere veramente libero.
A queste fondamentali dieci Parole, Dio (se posso dir così) ne ha aggiunto un’altra: la parola “grazie”. E’ il dono dell’inclinazione del cuore alla riconoscenza.
A dire il vero, l’esempio contrario e paradigmatico dei nove lebbrosi ingrati, sembra negare questa mia affermazione. In effetti, molto spesso vediamo che nemmeno la dura scuola della sofferenza riesce a suscitare nell’uomo lo stupore umile e riconoscente per il dono della vita, aprendogli il cuore a quella fondamentale verità personale che è la dipendenza nell’amore da Dio, suo Creatore e Padre. Ma se ciò accade è per il fatto che il peccato di orgoglio e di egoismo inquinano la purezza originale della coscienza, accecandola e deturpandola al punto da renderla irriconoscibile come il volto di un lebbroso, e così essa perde la riconoscenza come atteggiamento profondo naturale.
Ecco una mia piccola testimonianza al riguardo. Stamane, subito dopo aver dato il Corpo del Signore ad un giovane, ho accarezzato il volto del bambino che mi fissava dalle sue braccia (avrà avuto forse un anno di età), e lui mi ha prontamente ricambiato con un radioso sorriso.
Evidentemente il suo non è stato un atto volontario, ma riflesso, spontaneo, segno che nell’esperienza naturale della gratificazione è inscritta anche un’attitudine a ringraziare per ciò che la persona riceve di bello e di buono.
Il sorriso è il modo più facile e semplice di dire “grazie”, anche per l’adulto. Il sorriso dell’essere umano è paragonabile all’aprirsi del fiore ai primi raggi del sole: così l’uomo, la cui vita Dio fa germinare nel grembo, reca in sé la riconoscenza come un dato primordiale, ed ogni gesto d’amore è in grado di suscitarla mentre il cuore si apre come un fiore.
Concludendo il commento al Vangelo che ho citato, Benedetto XVI ha detto:“Chi, come il samaritano sanato, sa ringraziare, dimostra di non considerare tutto come dovuto, ma come un dono che, anche quando giunge attraverso gli uomini o la natura, proviene ultimamente da Dio. La fede comporta allora aprirsi alla grazia del Signore; riconoscere che tutto è dono, tutto è grazia. Quale tesoro è nascosto in una piccola parola: “grazie”!”
Tutto è dono, tutto è grazia, a partire dal dono e dalla grazia della vita.
Allora, oggi, il nostro grazie all’“Autore della vita” (At 3,15) diventa un infinito “grazie!” che sale dal profondo di un cuore purificato:
“Grazie infinite a Te, Padre, Fonte della mia vita,
perchè mi hai creato a Tua immagine nel seno di mia madre, figlio nel Figlio, per una vocazione specialissima di eterna felicità;
Grazie infinite a Te, Signore Gesù, Autore della mia vita,
perché dal seno del Padre mi sei venuto incontro, facendoti uomo nel grembo di Maria;
Grazie infinite a Te, Spirito Santo,
perché sei l’amore, la gioia, la novità, l’energia divina della mia vita.
Grazie infinite, Gesù mio, Vita della mia vita,
perché mi hai amato, mi hai cercato e mi hai trovato mentre ero ancora peccatore, condannato per l’eternità a vivere da straniero, lontano dalla casa del Padre;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché non Ti sei fermato a distanza per guarirmi con la Tua Parola, ma mi hai raggiunto, mi hai abbracciato, mi hai sanato facendoti lebbroso come me;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché Ti sei lasciato piagare mortalmente da me, mentre io dalle Tue piaghe sono stato salvato dalla morte;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché per custodire il dono della libertà mi donato il senso del peccato, la luce della coscienza, il moto della riconoscenza;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché come hai fatto con me, così a tutti i miei cari sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
perché mi hai donato la fede, che vale più della vita e per essa hai fatto di me una persona nuova;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono della preghiera che mi abilita al dialogo con Te, e mi insegna a percepire il mormorio leggero della Tua voce amica nell’intimo del cuore;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono sublime dell’Eucaristia e del sacerdote, per mezzo del quale mi restituisci settanta volte sette tutti i doni del tuo amore fedele perduti per mia colpa;
Grazie infinite, Vita della mia vita,
per il dono indicibile di Tua Madre, la “Piena di grazia”: la sua tenerezza mi avvolge giorno e notte, e dalle sue mani ricevo grazia su grazia. So che Ella mi assisterà con la sua presenza e la sua preghiera nell’ora di quella morte che la tua volontà avrà stabilito per me”.
Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
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