martedì 20 ottobre 2009

L'INTERVISTA - QUANTO HA INCISO LA "FIDES ET RATIO" SULLA VITA DELLA CHIESA?

Un convegno alla
Pontificia Università Urbaniana
fa il punto della situazione
Di Antonio Gaspari
18 ottobre 2009
Tratto da ZENIT.org
Mercoledì 11 novembre 2009, dalle ore 9:30 alle 18:00, si svolgerà presso l’Auditorium Giovanni Paolo II della Pontificia Università Urbaniana una giornata di studio su “Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico”.
Il convegno, organizzato dalla Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana, intende riflettere sulla ricezione dell’enciclica Fides et ratio a dieci anni dalla sua pubblicazione.
Per comprendere il senso e le finalità di tale convegno ZENIT ha intervistato il professor Aldo Vendemiati, Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana.
Perchè un convegno sull'enciclica Fides et ratio? Quali sono gli obiettivi che pensate di raggiungere?
Vendemiati: L’11 novembre 1998, Giovanni Paolo II venne di persona alla Pontificia Università Urbaniana, accompagnato dall’allora card. Josef Ratzinger, per presentare la Fides et ratio. A dieci anni dalla pubblicazione di quell’enciclica vi sono state molte iniziative di carattere scientifico e celebrativo. Da parte nostra abbiamo preferito dare un taglio di “verifica” al nostro incontro: dieci anni fa il Papa ci ha consegnato un documento, che uso ne abbiamo fatto? Quanto ha inciso quell’enciclica sul nostro modo di fare filosofia, teologia, missiologia e diritto? L’obiettivo del convegno è fare il punto della situazione, vedere cosa si è fatto, cosa si sta facendo e cosa resta da fare in merito.
Non è paradossale che ci sono scrittori atei che accusano la Chiesa di essere ‘l'oppio dei popoli’, mentre la Fides st ratio è una enciclica che difende la ragione?
Vendemiati: Sinceramente penso che accuse di questo genere, se non sono frutto di ignoranza crassa, sono espressioni di malafede ideologica. Non è solo la Fides et ratio a difendere la ragione: la Chiesa lo ha fatto incessantemente nel corso dei secoli. Credere che Gesù Cristo è il logos incarnato, significa coltivare la “logica” - in senso ampio - come la massima espressione dell’uomo: questo ha portato i monaci medievali a costituire scolae e biblioteche, ha portato i vescovi a istituire le università, ha portato tanti uomini di Chiesa a dare i loro contributi capitali alla ricerca scientifica (si pensi a Copernico, Pascal, Redi, Mendel e tanti altri).
Il vero oppio per il popolo sono quelle che a me piace chiamare “scorciatoie mentali”. Mi spiego: di fronte al mistero (la vita, la morte, l’infinito, l’amore…), la tentazione più grossa è quella di addomesticare l’angoscia che ci assale riducendo la realtà a qualcosa di già noto. “Scorciatoie mentali” sono gli schemi precostituiti sulla base dei quali cerchiamo di spiegare tutto, anche quel che non conosciamo. In questo modo evitiamo il confronto con la realtà, che è pur sempre un confronto “duro”; evitiamo il cammino, a volte inquietante, da compiere insieme con l’oggetto che vogliamo conoscere.
Così facendo, forse, evitiamo l’angoscia, ma smettiamo di ragionare e ci dedichiamo alla più pericolosa delle attività mentali umane: l’ideologia. La filosofia dovrebbe essere l’antidoto all’ideologia.
Ma come trascurare la «meraviglia e dispiacere» manifestati da Giovanni Paolo II nel rilevare che «non pochi teologi condividono disinteresse per lo studio della filosofia»? E come non sentirsi responsabili, in quanto filosofi, del fatto che, alla base di questa disaffezione dei teologi per la filosofia, sta in primo luogo «la sfiducia nella ragione che gran parte della filosofia contemporanea manifesta, abbandonando largamente la ricerca metafisica sulle domande ultime dell’uomo, per concentrare la propria attenzione su problemi particolari e regionali, talvolta anche puramente formali»? (Fides et ratio, n. 61).
Sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI sono convinti che la verità è impossibile da raggiungere senza le ali della fede e della ragione. Qual è il suo parere in proposito?
Vendemiati: La fede costituisce un orizzonte interpretativo globale, capace di offrire alla ragione un senso ultimo alla vita e alla morte. In essa valori, le norme e le motivazioni risultano garantiti incondizionatamente, concretizzati, resi capaci di creare sicurezza spirituale, fiducia e speranza. D’altra parte la fede senza la ragione non può sussistere: gli animali irragionevoli non credono. Sant’Agostino dice: Fides nisi cogitatur nulla est, la fede, se non viene pensata, è nulla.
Laddove la secolarizzazione taglia il cordone ombelicale fra le grandi tradizioni della fede e la ricerca razionale, o laddove il fondamentalismo esclude la possibilità della ricerca razionale stessa, i rischi sono evidenti. Il fondamentalismo, quando non conduce all’isolamento e all’incomunicabilità, sfocia nel conflitto e nel terrorismo. Il secolarismo radicale tende a sostituire la verità con il consenso, e «quanto fragili siano i consensi e quanto rapidamente, in un certo clima intellettuale, gruppi partitici possano imporsi come gli unici rappresentanti autorizzati del progresso e della responsabilità è davanti agli occhi di noi tutti» (J. Ratzinger).
In che modo la fede nel Dio cristiano può favorire l'allargamento degli orizzonti della ragione?
Vendemiati: Questo è il grande tema della fides quaerens intellectum, la fede che cerca l’intelligenza, la provoca, la mette in questione perché risponda a problemi nuovi e sempre più stimolanti. Certamente la filosofia non può “aggiungere” nulla alla Rivelazione, può tuttavia aiutarci a capirla meglio, a penetrarne più profondamente il senso; così facendo la ragione acquista forza e intelligenza, allargando - appunto - i suoi orizzonti. Si pensi a un concetto centrale per la civiltà occidentale: quello di “persona”.
Ebbene noi non avremmo questa nozione se non ci fosse stata la rivelazione cristiana e, segnatamente, senza le dispute cristologiche e trinitarie del IV secolo. La fede in Gesù Cristo e nella Santissima Trinità ha richiesto ai pensatori di elaborare concetti e distinzioni che consentissero una formulazione idonea del dogma. Quei concetti e quelle distinzioni sono diventate poi patrimonio culturale di tutti. La fede è uno sprone mirabile per spingere in avanti la conoscenza razionale nella ricerca della verità e nella confutazione dell’errore. Un assioma teologico classico dice: «La grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la perfeziona»; nel nostro campo questo può essere tradotto così: «La fede non distrugge la ragione, ma la suppone e la perfeziona».

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