18 luglio 2009
Tratto da ZENIT.org
La pubblicazione della prima enciclica sociale di Benedetto XVI a pochi giorni dal G8 dell’Aquila non pare essere una semplice coincidenza. Si tratta, infatti, di due eventi di straordinaria importanza perché saremo presto chiamati a scegliere quale modello di sviluppo vogliamo per i nostri figli.
E sul punto le opzioni a disposizione sembrano essere sostanzialmente due: ricercare, attraverso le azioni umane e gli strumenti economici, politici e sociali a nostra disposizione, la felicità umana nel solo benessere materiale; oppure, riconoscendo i limiti e la fallibilità della nostra conoscenza e degli strumenti in nostro possesso, concentrare gli sforzi nella ricerca di un modello di sviluppo integrale della persona, intesa sia nella sua dimensione materiale sia in quella spirituale.
L’enciclica “Caritas in veritate” [da una prima, sommaria e selettiva lettura], nel sottolineare come “senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica”, indica una chiara visione dell’economia di mercato. Delinea un sistema economico quanto più lontano da logiche dirigistiche e statalistiche, incentrato invece sul libero scambio e su una concezione del mercato che, riconoscendo la propria fallibilità, si apre a valori come solidarietà, la gratuità, la fiducia.
Un mercato concepito in chiave meramente produttivistica ed utilitaristica, in cui la persona non è considerata nella sua integrità, a lungo andare si manifesta per quello che è, cioè, come uno strumento incapace di assicurare un sviluppo non meramente consumistico e materialistico. Al contrario, in una “economia sociale di mercato” [un mercato che assume la cultura delle regole come cifra di civiltà], l’uomo - con la sua azione, la sua creatività e la sua capacità di innovare - viene posto al centro dei processi di mercato, fino a divenirne il fine.
Per far questo però, il mercato non può bastare a se stesso. Esso necessità di altri strumenti quali gli ordinamenti giuridici, i sistemi di controllo sociale extragiuridici, un’etica che contempli la cultura delle regole ed un sistema d interventi pubblici conformi al mercato, capaci di perseguire efficacemente gli interessi “civili” dei singoli. Si tratta di strumenti che devono operare all’interno del sistema economico ed intervenire in chiave sussidiaria al fine di lubrificare gli ingranaggi del libero mercato. Da un lato, accrescendo la fiducia e la correttezza tra gli operatori e garantendo la coesione sociale, dall’altro, scongiurando il rischio concreto che nella trama delle relazioni di mercato l’uomo venga ridotto a mero contraente, perdendo di conseguenza quel valore intrinseco che è invece proprio di ogni singola persona indipendentemente da ciò che essa è in grado di scambiare nel mercato
I prodotti finanziari-assicurativi costruiti per distribuire il più possibile i rischi derivanti dall’erogazione del credito, la delocalizzazione industriale concepita non come strumento di solidarietà ma di sfruttamento a fini produttivi di manodopera a basso costo, le politiche pubbliche di incentivazione ai consumi delle famiglie finalizzate all’aumento del PIL anche in condizioni di crescita demografica pari a zero (si veda la vicenda dei mutui subprime), la perversa concorrenza “a ribasso” tra ordinamenti giuridici in ambito sovranazionale (specie in materia di diritti sociali), le politiche di deregulation anche in settori sensibili come la finanza e il credito, l’assenza nel diritto globale dell’economia di un soddisfacente bilanciamento tra valori economici e valori non economici, rappresentano strumenti distruttivi del mercato e cioè, gli esiti di un’economia concepita in modo slegata rispetto alla logica del dono che è invece immanente nell’economia di mercato auspicata da Benedetto XVI.
Quanto detto ci mette tutti nelle condizioni di riflettere sulle possibili exit strategies con una prospettiva parzialmente diversa rispetto a quella con cui siamo soliti analizzare l’attuale crisi economica. Ci invita ad abbandonare quella concezione che vorrebbe l’economia affrancata dalla morale e che nega l’utilità - entro certi limiti e a determinate condizioni - della politica, delle istituzioni e delle regole per il corretto funzionamento del mercato.
Nell’esperienza degli Stati nazionali, quando ancora i confini dello Stato e quelli del mercato coincidevano, non sempre la politica ha dato prova di saper governare l’economia senza lasciarsi prendere dalla tentazione dirigistica. Del pari, non sempre le regole sono state in grado di promuovere la libertà economica, assicurando un’efficace tutela degli interessi pubblici. Ma quando le caratteristiche dell’economia post-industriale e la globalizzazione hanno segnato la fine di questo modello, si è venuta a creare una situazione di ingovernabilità del sistema economico e di eccessiva conflittualità intersoggettiva in parte riconducibile alla frammentazione dei pubblici poteri il cui intervento si basa sempre più su meccanismi e procedure di tipo non democratico, slegato dal circuito della rappresentanza politica.
In questo mutato contesto, l’insufficienza dei tradizionali strumenti giuridico-istituzionali tesi a promuovere il corretto funzionamento del mercato (tra cui rientra tanto la finanza pubblica, quanto la disciplina dei mercati finanziari, i servizi pubblici e l’azione delle autorità indipendenti), accompagnata dall’affermazione di un nuovo sistema valoriale spiccatamente egoistico e indifferente al bene di chi mi passa accanto, hanno permesso che nel mercato globale si facesse largo una visione economicistica dell’esistenza da cui è scaturita una preoccupante confusione tra fini (la persona) e mezzi (l’economia).
Perciò, se da un punto di vista culturale ed antropologico occorre soffermarsi sulla necessità di rinnovare il “contratto sociale” su cui si fonda il capitalismo, da un punto di vista giuridico-istituzionale, interrogarsi sulle possibili exit strategies significa avviare una riflessione su quali possano essere i mezzi attraverso cui, nonostante la globalizzazione e la persistente frammentarietà degli ordinamenti giuridici, assicurare al mercato oltre all’esercizio della virtù della giustizia commutativa, quella giusta dose di giustizia distributiva, senza la quale neppure la prima può essere esercitata. Si tratta, in altri termini, dell’affascinante tema della governance dell’economia globale e del problematico rapporto tra politica, diritto e mercato la cui soluzione non può che essere l’attuazione del principio di sussidiarietà.
L’ormai irreversibile crisi degli Stati nazionali, la frammentazione dei pubblici poteri e il nuovo rapporto tra società e diritto che ne è scaturito, la sussistenza di un articolato insieme di norme e regole e nel contempo di intersezioni fra diversi ordinamenti giuridici nazionali ed ultranazionali ove è assente qualsiasi forma di regolamentazione, deve spingere i potenti della terra verso il rafforzamento (anche politico) di una costituzione giuridico-istituzionale del mercato globale, favorendo il bilanciamento fra il libero mercato e quei valori extra economici il cui rispetto è essenziale per uno sviluppo equilibrato degli scambi e delle regolazioni in ambito sovranazionale.
Nell’impossibilità di immaginare la creazione di un vero e proprio Stato globale [ma anche la rischiosità che un simile evento comporterebbe], un passo importante (e forse più efficace) sarebbe quello di riflettere sulla possibilità di dar vita ad una vera e propria costituzione economica globale (a cui dovrebbero ancorarsi i global legal standards) capace di porre, nel rispetto della libertà dei singoli, poche e semplici regole a presidio degli interessi generali e del mercato stesso e di impedire che la concorrenza tra ordinamenti dia luogo ad una corsa al ribasso capace di stravolgere qualsiasi valore e tutela della persona. In questo nuovo contesto giuridico-istituzionale gli Stati nazionali (e, nel nostro caso, l’Europa) sarebbero chiamati ad intervenire, attraverso gli strumenti a propria disposizione, in chiave sussidiaria e conforme al mercato con l’unico fine di assicurare quella tutela della dimensione integrale della persona che tanto nelle economie chiuse quanto nella globalizzazione è mancata.
Fabio G. Angelini è Direttore del Centro Studi Tocqueville-Acton
E sul punto le opzioni a disposizione sembrano essere sostanzialmente due: ricercare, attraverso le azioni umane e gli strumenti economici, politici e sociali a nostra disposizione, la felicità umana nel solo benessere materiale; oppure, riconoscendo i limiti e la fallibilità della nostra conoscenza e degli strumenti in nostro possesso, concentrare gli sforzi nella ricerca di un modello di sviluppo integrale della persona, intesa sia nella sua dimensione materiale sia in quella spirituale.
L’enciclica “Caritas in veritate” [da una prima, sommaria e selettiva lettura], nel sottolineare come “senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica”, indica una chiara visione dell’economia di mercato. Delinea un sistema economico quanto più lontano da logiche dirigistiche e statalistiche, incentrato invece sul libero scambio e su una concezione del mercato che, riconoscendo la propria fallibilità, si apre a valori come solidarietà, la gratuità, la fiducia.
Un mercato concepito in chiave meramente produttivistica ed utilitaristica, in cui la persona non è considerata nella sua integrità, a lungo andare si manifesta per quello che è, cioè, come uno strumento incapace di assicurare un sviluppo non meramente consumistico e materialistico. Al contrario, in una “economia sociale di mercato” [un mercato che assume la cultura delle regole come cifra di civiltà], l’uomo - con la sua azione, la sua creatività e la sua capacità di innovare - viene posto al centro dei processi di mercato, fino a divenirne il fine.
Per far questo però, il mercato non può bastare a se stesso. Esso necessità di altri strumenti quali gli ordinamenti giuridici, i sistemi di controllo sociale extragiuridici, un’etica che contempli la cultura delle regole ed un sistema d interventi pubblici conformi al mercato, capaci di perseguire efficacemente gli interessi “civili” dei singoli. Si tratta di strumenti che devono operare all’interno del sistema economico ed intervenire in chiave sussidiaria al fine di lubrificare gli ingranaggi del libero mercato. Da un lato, accrescendo la fiducia e la correttezza tra gli operatori e garantendo la coesione sociale, dall’altro, scongiurando il rischio concreto che nella trama delle relazioni di mercato l’uomo venga ridotto a mero contraente, perdendo di conseguenza quel valore intrinseco che è invece proprio di ogni singola persona indipendentemente da ciò che essa è in grado di scambiare nel mercato
I prodotti finanziari-assicurativi costruiti per distribuire il più possibile i rischi derivanti dall’erogazione del credito, la delocalizzazione industriale concepita non come strumento di solidarietà ma di sfruttamento a fini produttivi di manodopera a basso costo, le politiche pubbliche di incentivazione ai consumi delle famiglie finalizzate all’aumento del PIL anche in condizioni di crescita demografica pari a zero (si veda la vicenda dei mutui subprime), la perversa concorrenza “a ribasso” tra ordinamenti giuridici in ambito sovranazionale (specie in materia di diritti sociali), le politiche di deregulation anche in settori sensibili come la finanza e il credito, l’assenza nel diritto globale dell’economia di un soddisfacente bilanciamento tra valori economici e valori non economici, rappresentano strumenti distruttivi del mercato e cioè, gli esiti di un’economia concepita in modo slegata rispetto alla logica del dono che è invece immanente nell’economia di mercato auspicata da Benedetto XVI.
Quanto detto ci mette tutti nelle condizioni di riflettere sulle possibili exit strategies con una prospettiva parzialmente diversa rispetto a quella con cui siamo soliti analizzare l’attuale crisi economica. Ci invita ad abbandonare quella concezione che vorrebbe l’economia affrancata dalla morale e che nega l’utilità - entro certi limiti e a determinate condizioni - della politica, delle istituzioni e delle regole per il corretto funzionamento del mercato.
Nell’esperienza degli Stati nazionali, quando ancora i confini dello Stato e quelli del mercato coincidevano, non sempre la politica ha dato prova di saper governare l’economia senza lasciarsi prendere dalla tentazione dirigistica. Del pari, non sempre le regole sono state in grado di promuovere la libertà economica, assicurando un’efficace tutela degli interessi pubblici. Ma quando le caratteristiche dell’economia post-industriale e la globalizzazione hanno segnato la fine di questo modello, si è venuta a creare una situazione di ingovernabilità del sistema economico e di eccessiva conflittualità intersoggettiva in parte riconducibile alla frammentazione dei pubblici poteri il cui intervento si basa sempre più su meccanismi e procedure di tipo non democratico, slegato dal circuito della rappresentanza politica.
In questo mutato contesto, l’insufficienza dei tradizionali strumenti giuridico-istituzionali tesi a promuovere il corretto funzionamento del mercato (tra cui rientra tanto la finanza pubblica, quanto la disciplina dei mercati finanziari, i servizi pubblici e l’azione delle autorità indipendenti), accompagnata dall’affermazione di un nuovo sistema valoriale spiccatamente egoistico e indifferente al bene di chi mi passa accanto, hanno permesso che nel mercato globale si facesse largo una visione economicistica dell’esistenza da cui è scaturita una preoccupante confusione tra fini (la persona) e mezzi (l’economia).
Perciò, se da un punto di vista culturale ed antropologico occorre soffermarsi sulla necessità di rinnovare il “contratto sociale” su cui si fonda il capitalismo, da un punto di vista giuridico-istituzionale, interrogarsi sulle possibili exit strategies significa avviare una riflessione su quali possano essere i mezzi attraverso cui, nonostante la globalizzazione e la persistente frammentarietà degli ordinamenti giuridici, assicurare al mercato oltre all’esercizio della virtù della giustizia commutativa, quella giusta dose di giustizia distributiva, senza la quale neppure la prima può essere esercitata. Si tratta, in altri termini, dell’affascinante tema della governance dell’economia globale e del problematico rapporto tra politica, diritto e mercato la cui soluzione non può che essere l’attuazione del principio di sussidiarietà.
L’ormai irreversibile crisi degli Stati nazionali, la frammentazione dei pubblici poteri e il nuovo rapporto tra società e diritto che ne è scaturito, la sussistenza di un articolato insieme di norme e regole e nel contempo di intersezioni fra diversi ordinamenti giuridici nazionali ed ultranazionali ove è assente qualsiasi forma di regolamentazione, deve spingere i potenti della terra verso il rafforzamento (anche politico) di una costituzione giuridico-istituzionale del mercato globale, favorendo il bilanciamento fra il libero mercato e quei valori extra economici il cui rispetto è essenziale per uno sviluppo equilibrato degli scambi e delle regolazioni in ambito sovranazionale.
Nell’impossibilità di immaginare la creazione di un vero e proprio Stato globale [ma anche la rischiosità che un simile evento comporterebbe], un passo importante (e forse più efficace) sarebbe quello di riflettere sulla possibilità di dar vita ad una vera e propria costituzione economica globale (a cui dovrebbero ancorarsi i global legal standards) capace di porre, nel rispetto della libertà dei singoli, poche e semplici regole a presidio degli interessi generali e del mercato stesso e di impedire che la concorrenza tra ordinamenti dia luogo ad una corsa al ribasso capace di stravolgere qualsiasi valore e tutela della persona. In questo nuovo contesto giuridico-istituzionale gli Stati nazionali (e, nel nostro caso, l’Europa) sarebbero chiamati ad intervenire, attraverso gli strumenti a propria disposizione, in chiave sussidiaria e conforme al mercato con l’unico fine di assicurare quella tutela della dimensione integrale della persona che tanto nelle economie chiuse quanto nella globalizzazione è mancata.
Fabio G. Angelini è Direttore del Centro Studi Tocqueville-Acton
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