martedì 4 agosto 2009

SPECIALE ENCICLICA "CARITAS IN VERITATE" - TERZA PARTE DEL DISCORSO DEL CARD. BERTONE AL SENATO ITALIANO (26.ESIMA PARTE)

22 luglio 2009
Tratto da ZENIT.org

Quando lo scopo dell'agire economico non è la tensione verso un comune obiettivo - come l'etimo latino cum-petere lascerebbe chiaramente intendere - ma l'hobbesiana mors tua, vita mea, il legame sociale viene ridotto al rapporto mercantile e l'attività economica tende a divenire inumana e dunque ultimamente inefficiente. Dunque, anche nella competizione, la "dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o "dopo" di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente" (n. 36).
Ebbene, il guadagno, certo non da poco, che la
Caritas in veritate ci offre è quello di prendere in grande considerazione quella concezione del mercato, tipica della tradizione di pensiero dell'economia civile, secondo cui si può vivere l'esperienza della socialità umana all'interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa o a lato di essa. È questa una concezione che si potrebbe definire alternativa, sia rispetto a quella che vede il mercato come luogo dello sfruttamento e della sopraffazione del forte sul debole, sia a quella che, in linea con il pensiero anarco-liberista, lo vede come luogo in grado di dare soluzione a tutti i problemi della società.
Questo modo di fare impresa si differenzia nei confronti dell'economia di tradizione smithiana che vede il mercato come l'unica istituzione davvero necessaria per la democrazia e per la libertà. La dottrina sociale della Chiesa ci ricorda invece che una buona società è frutto certamente del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze, riconducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata o alla filantropia. Piuttosto, essa propone un umanesimo a più dimensioni, nel quale il mercato non è combattuto o "controllato", ma è visto come momento importante della sfera pubblica - sfera che è assai più vasta di ciò che è statale - che, se concepito e vissuto come luogo aperto anche ai principi di reciprocità e del dono, può costruire una sana convivenza civile.
Prendo ora in considerazione uno dei temi presenti nell'
enciclica che mi pare abbia suscitato un certo interesse pubblico per la novità che rivestono i principi di fraternità e di gratuità nell'agire economico. "Lo sviluppo, se vuole essere autenticamente umano", dice Benedetto XVI, deve "fare spazio al principio di gratuità" (n. 34). Servono "forme economiche solidali". Significativo, in questo senso il capitolo dedicato alla collaborazione della famiglia umana, dove viene messo in evidenza che "lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia" per cui "un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione". E ancora: "Il tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace" (nn. 53-54).
La parola chiave che oggi meglio di ogni altra esprime questa esigenza è quella di fraternità. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo, che costituisce il complemento e l'esaltazione del principio di solidarietà. Infatti mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali per via della loro uguale dignità e dei loro diritti fondamentali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di esser diversi, nel senso di poter esprimere diversamente il loro piano di vita o il loro carisma.
Esplicito meglio: le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l'Ottocento e soprattutto il Novecento, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che una società orientata al bene comune non può accontentarsi della solidarietà, ma ha bisogno di una solidarietà che rispecchi la fraternità dato che, mentre la società fraterna è anche solidale, il contrario non è necessariamente vero.
Se si dimentica il fatto che non è sostenibile una società di esseri umani in cui viene meno il senso di fraternità e in cui tutto si riduce a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti o ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci si rende conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità. La
Caritas in veritate ci aiuta a prendere coscienza che la società non è capace di futuro se si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire se esiste e si sviluppa solamente la logica del "dare per avere" oppure del "dare per dovere". Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate.
Ci si pone allora la domanda: perché riemerge come un fiume carsico, la prospettiva del bene comune, secondo la formulazione ad essa data dalla dottrina sociale della Chiesa, dopo almeno un paio di secoli durante i quali essa era di fatto uscita di scena? Perché il passaggio dai mercati nazionali al mercato globale, consumatosi nel corso dell'ultimo quarto di secolo, va rendendo di nuovo attuale il discorso sul bene comune? Osservo, di sfuggita, che quanto accade è parte di un più vasto movimento di idee in economia, un movimento il cui oggetto è il legame tra religiosità e performance economica. A partire dalla considerazione che le credenze religiose sono di importanza decisiva nel forgiare le mappe cognitive dei soggetti e nel plasmare le norme sociali di comportamento, questo movimento di idee cerca di indagare quanto la prevalenza in un determinato Paese (o territorio) di una certa matrice religiosa influenzi la formazione di categorie di pensiero economico, i programmi di welfare, la politica scolastica e così via. Dopo un lungo periodo di tempo, durante il quale la celebre tesi della secolarizzazione pareva avesse detto la parola fine sulla questione religiosa, almeno per quel che concerne il campo economico, quanto sta oggi accadendo suona veramente paradossale.
3-Continua

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