martedì 28 settembre 2010

L'ALTRA OMELIA (46) - LA COSCIENZA BRINDA PRIMA PER LA VITA

XXVI Domenica del Tempo Ordinario
26 settembre 2010
Di padre Angelo del Favero

26 settembre 2010
Tratto da ZENIT.org
“Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti” (Amos 6,1a.4-7).
“C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi tra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, e tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,19-31).

La prima Lettura è una requisitoria di Amos (profeta-contadino vissuto nell’ottavo secolo a.C.) contro i notabili di Samaria per denunciarne l’ostentata ricchezza, l’egoismo sfacciato, la corruzione morale e l’incosciente tranquillità: peccati di quell’auto-idolatria che non solamente anestetizza il sentimento della compassione per i poveri, ma acceca nella coscienza anche il lume naturale della ragione.
Nella seconda Lettura, Paolo volge in termini positivi il monito severo di Amos esortando il discepolo Timoteo a prendere a modello di comportamento l’esempio di Gesù: “Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, , alla pazienza, alla mitezza.(…) Davanti a..Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza di fronte a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento,..” (1Tim 6,1.13-14).
Di fronte allo scetticismo di Pilato e alla ferocia dei soldati, Gesù ha “dato testimonianza alla verità” (Gv 18,37), conservando in modo irreprensibile la carità, la pazienza, la mitezza, e lasciandoci il suo mirabile esempio “perché ne seguiamo le orme” (1Pt 2,21).
Con la sua morte e risurrezione Gesù ci ha ottenuto di poter effettivamente seguire le sue orme, grazie al dono dello Spirito Santo (Rm 5,5). Lo Spirito, infatti, opera una sorta di “connaturalità tra l’uomo e il vero bene, che si radica e si sviluppa negli atteggiamenti virtuosi dell’uomo stesso” (Enciclica “Veritatis splendor”, n. 64). In pratica ci fa “conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento” della carità cristiana, cioè il comandamento nuovo di Gesù: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12).
Lo Spirito è il dono del cuore nuovo annunciato dai profeti, vale a dire la coscienza nuova del cristiano, reso partecipe del pensare, del sentire e dell’amare di Cristo stesso (cf 1Cor 2,16; Fil 2,5).
La recente beatificazione del cardinal J. H. Newman ha dato modo a Benedetto XVI di ribadire la verità sulla coscienza, quella che Newman espresse con profonda ed elegante finezza nella famosa frase della Lettera al Duca di Norfolk: “Certamente, se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa”.
Già nel 1990 Joseph Ratzinger spiegava così il significato di questo brindisi in due tempi: “La libertà di coscienza non si identifica affatto col diritto di dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere indipendenti da doveri invisibili. In tal modo la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento dell’autorità del Papa. Infatti la sua forza viene dalla Rivelazione, che completa la coscienza naturale illuminata in modo solo incompleto” (28 aprile 1990, Discorso per il centenario della morte di Newman).
Un esempio attuale e drammatico di coscienza incompletamente illuminata sono coloro che ritengono cosa giusta rimettere alla coscienza individuale la decisione dell’eventuale rifiuto omicida della vita già concepita nel grembo, o approvano la tecnica disumana della fecondazione artificiale, o hanno giustificato l’uccisione di Eluana Englaro. A queste persone (che possono essere in sincera, ma gravemente erronea “buona fede”), direi con Newman: la retta coscienza non brinda mai anzitutto per se stessa, ma brinda prima per la vita e poi per se stessa.
Il valore-vita, essendo il più fondamentale fra i diritti umani è, sì, affidato alla coscienza di tutti, ma non dipende dalla coscienza. La coscienza, infatti, è voce del cuore, ma di un cuore percorso dalla luce eterna ed immutabile della Verità.
Torniamo alla Lettera di Paolo, in particolare alle prime parole del versetto 6,11: “Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose..”. A quali cose si riferisce l’apostolo? Il versetto precedente ne parla: “L’avidità del denaro, infatti, è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1Tim 6,10). Si tratta dunque dei frutti cattivi (l’abbandono della retta fede e le conseguenze) di un albero pessimo: l’avidità del denaro, intesa come idolatria di quel potere-possesso sulla vita che suggerisce alla coscienza di non avere bisogno di nulla e di nessuno. Trattandosi perciò della presunzione diabolica dell’autosufficienza della creatura dal Creatore, l’avidità del denaro prepara un destino infinitamente tormentoso: l’eterna separazione da Dio.
Lo rivela Gesù narrando la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro.
Anzitutto va precisato che “il ricco, nella Bibbia è l’ateo pratico: ha fatto di sé il centro di tutto, si è messo al posto di Dio. Richiama per certi aspetti Erode, vestito splendidamente, che banchetta e si gonfia facendosi acclamare come dio. E’ il contrario di Gesù, che da ricco che era, si fece povero, si svuotò di sé e si fece tapino” (Silvano Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, p. 573).
Perciò la parabola non deve sembrarci qualcosa di estremo e di estraneo al nostro ambiente sociale. Infatti oggi l’ateismo pratico è culturalmente considerato un valore civile e un segno di libertà. Atei pratici sono tutti coloro che vivono come se Dio non esistesse, o, se esistesse, come se non avesse niente a che fare con il nostro mondo e la nostra storia personale. Sono quegli stolti che preferiscono credere all’assurdo della creazione dal nulla piuttosto che ricercare umilmente l’Autore di tutte le cose a partire dalla stupefacente bellezza della natura.
Perciò il Vangelo del ricco epulone non riguarda solo chi ha il portafoglio pieno, ma anche chi, avendolo vuoto, non è ricco di misericordia.
Ha scritto Papa Ratzinger: “Il Signore ci vuole condurre da un’intelligenza stolta alla vera sapienza, ci vuole insegnare a riconoscere il vero bene. Il ricco epulone era un uomo dal cuore vuoto, che nei suoi stravizi voleva solo soffocare il vuoto che c’era in lui: nell’al di là viene solo alla luce la verità che era ormai presente anche nell’aldiquà. Naturalmente questa parabola, risvegliandoci, è al contempo anche una esortazione all’amore che dobbiamo donare ora ai nostri fratelli poveri..” (in “Gesù di Nazaret”, p.253).
Il cuore vuoto non è altro che la coscienza dell’uomo che ha lasciato soffocare dentro di sé la voce naturale e divina della Verità, sostituendola a poco a poco con la propria. Se costui muore in questo stato volontario, anziché entrare per sempre nella Vita, entrerà nella morte eterna, che è l’infinito strazio ontologico della separazione dal Padre, fonte di ogni Bene.
Ce lo fa intuire il particolare, materialmente incomprensibile, del sollievo supplicato dal ricco immerso nei tormenti: “manda Lazzaro ad intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma” (Lc 16,24).
Il ricco, la cui coscienza rimaneva insensibile alla vista delle piaghe di Lazzaro leccate dai cani, chiede ora un inconsistente refrigerio. Il fuoco eterno lo ha reso tanto sensibile all’arsura da accontentarsi di una briciola d’acqua nelle fiamme, lui che negava le briciole di pane a chi moriva di fame sotto i propri occhi. Ora la sua coscienza è tornata viva e sensibile, e riconosce che è stata l’avidità del denaro a condurlo nell’inferno, ma non c’è più speranza.
Ma noi, che siamo ancora in tempo, preghiamo così: “O Verità che illumini il mio cuore, fa’ che non siano le tenebre a parlarmi! Mi sono smarrito, ma mi sono ricordato di Te. Ho sentito la tua voce alle mie spalle che mi diceva di tornare indietro: l’ho sentita a malapena, a causa del tumulto interiore dell’inquietudine, ma ecco che ora torno assetato alla tua fonte. Non devo essere io la mia vita: da me sono vissuto male, sono stato morte per me stesso; in Te ritorno a vivere. Parlami Tu, istruiscimi” (dalle Confessioni di sant’Agostino).
Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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