XXIV Domenica del Tempo Ordinario
12 settembre 2010
Di padre Angelo del Favero
10 settembre 2010
Di padre Angelo del Favero
10 settembre 2010
Tratto da ZENIT.org
“Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Egli disse loro questa parabola: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta finchè non la trova?(…) Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finchè non la trova?(…)
Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio, vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.(…)
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno..si indignò e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni..”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. (Lc 15,1-32).
Il figlio “più giovane” prima di partire per “un paese lontano”, era ancora vivo; quando ritorna a casa, è “tornato in vita”. In mezzo c’è stata la sua morte: “questo tuo fratello era morto” (Lc 15,32).
Viveva nella morte poichè aveva “speso tutto” (Lc 15,14).
“Tutto”: non solo il legittimo patrimonio, ma la sua stessa vita, la sua persona, se stesso.
Il Vangelo racconta altrove un fatto paragonabile: una “vedova povera” che spende “tutto quanto aveva per vivere”, però non egoisticamente, ma per un atto di estrema generosità (Mc 12,41-44). Non sappiamo come questa donna riuscì poi a sopravvivere, ma certamente non fu dimenticata da Colui che l’aveva osservata con gli occhi compiaciuti di Gesù: il Padre che “sostiene l’orfano e la vedova” (Salmo 146/145, 9).
Collegando al racconto di Marco le “parabole della misericordia” di Luca (la pecora smarrita, la moneta perduta, il figlio ritrovato vivo), abbiamo la rivelazione che il Padre della nostra vita, oltre a sostenere i giusti che lo temono (come la vedova povera), va sempre in cerca anche di ognuno di quei figli “dissoluti” che hanno abbandonato la sua e loro casa, “sciogliendosi” dal legame vitale del rapporto con lui.
Per le viscere materne del Padre, tale ricerca è un’ansia insopprimibile, dato che ogni figlio, nel Figlio, è tutto quanto “aveva per vivere”; come fa intendere l’abbandono delle novantanove pecore a causa dell’unica che si è perduta, “finchè non la trova” (Lc 15,4-6).
Torniamo al “figlio più giovane”.
Paradossalmente è tornato in vita quando stava per morire di fame. Era già “morto” e in più stava per morire di fame, ma se non avesse avuto una fame da morire non sarebbe tornato in vita.
Infatti, per fame rientra in se stesso e, vedendosi morto dentro, decide di ritornare a casa. Non lo spinge l’amore per il padre che lo aspetta, ma il digiuno: “io qui muoio di fame”; tuttavia ammette anche: “ho peccato verso il Cielo e davanti a te” (Lc 15,18).
Quest’ammissione, però, non fu il segno della vera conversione, ma solo la porta aperta alla grazia.
Infatti il giovane, pur riconoscendo il suo peccato di ingratitudine, ancora non riconosce il peccato più grande, quello che gli fa dire: “non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”; non capisce ancora né l’amore di suo padre, né la propria dignità di figlio (Lc 15,19).
Perciò fu provvidenziale per lui condividere la sorte dei porci. In tal modo cominciò a sgretolarsi nel suo cuore quel nocciolo cieco e duro che lo aveva trascinato così in basso, così lontano dalla verità del padre e di se stesso. Così “ritornò in sé”, rivide la sua casa e cominciò a muovere i passi affranti ed umiliati del ritorno.
La grazia dell’autentica conversione cominciò a sbocciare in lui nel momento dell’imprevedibile, commosso abbraccio del padre: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi” (Lc 15,22). Allora il giovane capì che non si era mai separato dal suo amore, e che nemmeno l’amara esperienza delle carrube lo aveva potuto spogliare della sua inalienabile dignità di figlio.
“Il figlio maggiore” al contrario, impeccabile e “giusto”, non aveva ancora compreso questa essenziale verità del padre e di se stesso, come dimostrano queste sue dure parole: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto..” (Lc 15,29).
Dice: “un tuo comando”...quanto feriscono queste parole! Come può un figlio sentirsi suddito del padre che lo generato?
Sì, è più doloroso di.. “trattami come uno dei tuoi salariati” (Lc 15,19), e uccide il cuore del padre per l’incomprensibile falsificazione del suo rapporto profondo col figlio.
Perciò il peccato del figlio maggiore, così sprezzante nel giudizio, appare più grave di quello del fratello dissoluto.
Ce lo fa intendere un’altra parabola di Gesù, quella sulla differenza tra il peccato-pagliuzza e il peccato-trave: “Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio?” (Lc 6,39-42). La trave è ben più pesante e difficile da rimuovere della pagliuzza!
Ecco allora che chiunque, come il figlio maggiore, giudica il fratello e crede di far bene, non vede la trave del peccato che sta nell’occhio della sua coscienza e gli impedisce di entrare nella gioia della comunione col Padre.
Perciò, tornando ai “due figli” di oggi, il più bisognoso della misericordia paterna sembra proprio colui che “si indignò e non voleva entrare”, lui che ai propri occhi appartiene alla schiera di quei “novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
Questo “non voleva entrare”, fa intendere come un blocco, una paralisi, un impedimento profondo della volontà pratica. In effetti, in certo qual modo, egli “non poteva entrare” senza la grazia di una conversione più grande di quella che aveva fatto tornare a casa suo fratello.
Per quanto ci riguarda, poi, “non voleva entrare” dice anche quell’estrema difficoltà al perdono che la nostra natura incontra in se stessa nei confronti di chi ci offende dolorosamente: allora ci è pressoché impossibile “entrare” nella logica del Padre misericordioso, mutando il cocente risentimento in benevolenza e compassione.
Quasi senza volerlo, in queste situazioni ci ritroviamo nei panni stirati e nello sguardo freddo del figlio maggiore, e siamo portati a guardare quello che riceviamo noi e quello che ricevono gli altri, giudicando ogni cosa in base alla logica perversa del “do ut des”.
Comprendiamo allora, in conclusione, che l’oggetto più importante della misericordia di Dio non è la vita fisica su questa terra, ma la nostra conversione nella fede alla sua stessa misericordia, dalla quale dipendono la felicità e la pienezza della vita su questa terra, e la gioia della festa eterna col Padre nella sua Casa, nella quale siamo tutti predestinati ad “entrare”, dato che siamo “realmente figli di Dio” (1Gv 3,1).
Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio, vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.(…)
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno..si indignò e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni..”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. (Lc 15,1-32).
Il figlio “più giovane” prima di partire per “un paese lontano”, era ancora vivo; quando ritorna a casa, è “tornato in vita”. In mezzo c’è stata la sua morte: “questo tuo fratello era morto” (Lc 15,32).
Viveva nella morte poichè aveva “speso tutto” (Lc 15,14).
“Tutto”: non solo il legittimo patrimonio, ma la sua stessa vita, la sua persona, se stesso.
Il Vangelo racconta altrove un fatto paragonabile: una “vedova povera” che spende “tutto quanto aveva per vivere”, però non egoisticamente, ma per un atto di estrema generosità (Mc 12,41-44). Non sappiamo come questa donna riuscì poi a sopravvivere, ma certamente non fu dimenticata da Colui che l’aveva osservata con gli occhi compiaciuti di Gesù: il Padre che “sostiene l’orfano e la vedova” (Salmo 146/145, 9).
Collegando al racconto di Marco le “parabole della misericordia” di Luca (la pecora smarrita, la moneta perduta, il figlio ritrovato vivo), abbiamo la rivelazione che il Padre della nostra vita, oltre a sostenere i giusti che lo temono (come la vedova povera), va sempre in cerca anche di ognuno di quei figli “dissoluti” che hanno abbandonato la sua e loro casa, “sciogliendosi” dal legame vitale del rapporto con lui.
Per le viscere materne del Padre, tale ricerca è un’ansia insopprimibile, dato che ogni figlio, nel Figlio, è tutto quanto “aveva per vivere”; come fa intendere l’abbandono delle novantanove pecore a causa dell’unica che si è perduta, “finchè non la trova” (Lc 15,4-6).
Torniamo al “figlio più giovane”.
Paradossalmente è tornato in vita quando stava per morire di fame. Era già “morto” e in più stava per morire di fame, ma se non avesse avuto una fame da morire non sarebbe tornato in vita.
Infatti, per fame rientra in se stesso e, vedendosi morto dentro, decide di ritornare a casa. Non lo spinge l’amore per il padre che lo aspetta, ma il digiuno: “io qui muoio di fame”; tuttavia ammette anche: “ho peccato verso il Cielo e davanti a te” (Lc 15,18).
Quest’ammissione, però, non fu il segno della vera conversione, ma solo la porta aperta alla grazia.
Infatti il giovane, pur riconoscendo il suo peccato di ingratitudine, ancora non riconosce il peccato più grande, quello che gli fa dire: “non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”; non capisce ancora né l’amore di suo padre, né la propria dignità di figlio (Lc 15,19).
Perciò fu provvidenziale per lui condividere la sorte dei porci. In tal modo cominciò a sgretolarsi nel suo cuore quel nocciolo cieco e duro che lo aveva trascinato così in basso, così lontano dalla verità del padre e di se stesso. Così “ritornò in sé”, rivide la sua casa e cominciò a muovere i passi affranti ed umiliati del ritorno.
La grazia dell’autentica conversione cominciò a sbocciare in lui nel momento dell’imprevedibile, commosso abbraccio del padre: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi” (Lc 15,22). Allora il giovane capì che non si era mai separato dal suo amore, e che nemmeno l’amara esperienza delle carrube lo aveva potuto spogliare della sua inalienabile dignità di figlio.
“Il figlio maggiore” al contrario, impeccabile e “giusto”, non aveva ancora compreso questa essenziale verità del padre e di se stesso, come dimostrano queste sue dure parole: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto..” (Lc 15,29).
Dice: “un tuo comando”...quanto feriscono queste parole! Come può un figlio sentirsi suddito del padre che lo generato?
Sì, è più doloroso di.. “trattami come uno dei tuoi salariati” (Lc 15,19), e uccide il cuore del padre per l’incomprensibile falsificazione del suo rapporto profondo col figlio.
Perciò il peccato del figlio maggiore, così sprezzante nel giudizio, appare più grave di quello del fratello dissoluto.
Ce lo fa intendere un’altra parabola di Gesù, quella sulla differenza tra il peccato-pagliuzza e il peccato-trave: “Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio?” (Lc 6,39-42). La trave è ben più pesante e difficile da rimuovere della pagliuzza!
Ecco allora che chiunque, come il figlio maggiore, giudica il fratello e crede di far bene, non vede la trave del peccato che sta nell’occhio della sua coscienza e gli impedisce di entrare nella gioia della comunione col Padre.
Perciò, tornando ai “due figli” di oggi, il più bisognoso della misericordia paterna sembra proprio colui che “si indignò e non voleva entrare”, lui che ai propri occhi appartiene alla schiera di quei “novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
Questo “non voleva entrare”, fa intendere come un blocco, una paralisi, un impedimento profondo della volontà pratica. In effetti, in certo qual modo, egli “non poteva entrare” senza la grazia di una conversione più grande di quella che aveva fatto tornare a casa suo fratello.
Per quanto ci riguarda, poi, “non voleva entrare” dice anche quell’estrema difficoltà al perdono che la nostra natura incontra in se stessa nei confronti di chi ci offende dolorosamente: allora ci è pressoché impossibile “entrare” nella logica del Padre misericordioso, mutando il cocente risentimento in benevolenza e compassione.
Quasi senza volerlo, in queste situazioni ci ritroviamo nei panni stirati e nello sguardo freddo del figlio maggiore, e siamo portati a guardare quello che riceviamo noi e quello che ricevono gli altri, giudicando ogni cosa in base alla logica perversa del “do ut des”.
Comprendiamo allora, in conclusione, che l’oggetto più importante della misericordia di Dio non è la vita fisica su questa terra, ma la nostra conversione nella fede alla sua stessa misericordia, dalla quale dipendono la felicità e la pienezza della vita su questa terra, e la gioia della festa eterna col Padre nella sua Casa, nella quale siamo tutti predestinati ad “entrare”, dato che siamo “realmente figli di Dio” (1Gv 3,1).
Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
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