lunedì 7 marzo 2011

150 ANNI D'ITALIA E D'ITALIANI (17) - L'UNITA' D'ITALIA E LA QUESTIONE MERIDIONALE (TERZA PARTE)

12 febbraio 2011
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione del discorso pronunciato venerdì 11 febbraio da mons. Mariano Crociata, Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) intervenendo a Conegliano (TV) sul tema “L’unità d’Italia e la questione meridionale: il Magistero della Chiesa e il compito dei cristiani”.
Magistero e Chiesa di fronte alla questione meridionale nella storia dell’Italia unita
La Chiesa in Italia ha sempre, seppure in modi diversi, condiviso le sorti della popolazione nelle varie parti del Paese, fedele alla sua missione pastorale. Nondimeno è vero pure che la ripartizione dell’Italia pre-unitaria in tanti stati rendeva frammentata anche l’organizzazione ecclesiastica, che conosceva tanti episcopati e non ancora un unico episcopato nazionale. Non a caso, le stesse conferenze regionali dei vescovi rimarranno a lungo scarsamente influenti rispetto al senso di appartenenza ad una Chiesa che si percepisce unitaria all’interno di uno spazio geografico, culturale e civile nazionale. Ciò segnala come il processo unitario abbia avuto una sua incidenza sul modo di comprendersi della Chiesa in relazione al territorio e all’Italia, e sul modo di rapportarsi delle sue componenti, a cominciare dagli stessi vescovi delle varie regioni tra di loro. È operante, comunque, un’influenza della tradizione cattolica degli italiani sul senso stesso di italianità e sullo sviluppo del processo di unificazione, di cui è importante rilevare che il senso unitario del cattolicesimo italiano si confermerà e si svilupperà, soprattutto nei primi decenni del nuovo Stato ma poi anche in seguito fino al presente, attorno al rapporto di devozione e di amore al Papa [10].
Questo aiuta a cogliere una distinzione tra il rapporto della Chiesa con il processo di unificazione e con lo Stato unitario, e la sua presenza in mezzo al popolo dei fedeli. Proprio tale intreccio profondo con il territorio e con la sua gente ha fatto della Chiesa un fattore di unità sostanziale della nazione ben prima della sua unificazione statuale e ben oltre le contingenze conflittuali che hanno caratterizzato alcune fasi critiche dei suoi rapporti con il nuovo Stato, comunque insorgenti non per effetto di una ostilità diretta contro l’unità – peraltro contraddetta da quel sentimento di italianità che è stato un tutt’uno con lo spontaneo sentire delle popolazioni e con le espressioni di non poche figure di pensatori cattolici –, quanto piuttosto da una preoccupazione suscitata da, non solo presunte, minacce alla libertà della Chiesa.
La questione meridionale si configura, in tale contesto, come un ambito non secondario in cui si segnala l’apporto significativo della Chiesa al cammino di unificazione della nazione. Ciò risulta vero, innanzitutto, non in proporzione alle prese di posizione del magistero dei vescovi, che verranno in una seconda fase della storia nazionale, ma soprattutto in relazione alla presenza religiosa [11], in prima battuta, e al fermento sociale e culturale suscitato da una molteplicità di iniziative, successivamente. Nasce, poco più di un decennio dopo l’Unità, l’Opera dei Congressi, ma nasce anche una «rete di organismi cattolico-sociali creati nei decenni successivi [soprattutto dopo gli anni Ottanta], profondamente legati alla base parrocchiale cattolica e all’organizzazione ecclesiastica», con l’effetto di «inserimento modernizzante in un orizzonte nazionale di generazioni di contadini, piccoli proprietari agricoli, artigiani, lavoratori delle manifatture rurali, piccoli borghesi delle città» [12].
Difficile dire quanto in questa prima fase fosse avvertita la distanza che si era già formata tra nord e sud, a cominciare dagli stessi vescovi delle regioni meridionali, tenuto anche conto del fatto che con il nuovo secolo si afferma una prassi che prevede spesso la nomina di vescovi del nord per le diocesi del meridione. «La “questione meridionale” non fu, però, mai oggetto, sia pure incidentalmente, di dibattiti nelle Chiese e nel movimento cattolico del Mezzogiorno e, tantomeno, a Roma. I cattolici, infatti, avevano ignorato i dibattiti sui problemi del Sud che pur impegnarono i rappresentanti dell’intellettualità del paese» [13].
«Non che le cento Chiese meridionali non conoscessero le difficoltà quotidiane dei contadini, il loro rapporto secolare con la terra, la conflittualità latente o meno col mondo feudale che stentava a scomparire, la miseria dilagante e la piaga dell’emigrazione e tanti altri problemi; li conoscevano perché gran parte del clero meridionale, per secoli, aveva vissuto in parallelo le stesse situazioni, era stato legato alla terra non meno profondamente del contadino, aveva lottato costantemente contro i soprusi dei signorotti. […] non c’era la coscienza e la mentalità adatta, non c’erano le condizioni generali, non c’era la sensibilità necessaria e se si interveniva il tono era sempre paternalistico e consolatorio. È vero, ci sono stati i così detti “preti del movimento”, i preti sociali, qualche vescovo sociale alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, che non si sono persi in sterili discussioni ma che hanno agito ed offerto ad una parte dei “vinti” mezzi di riscatto che si chiamavano cooperative, casse rurali, circoli associativi, leghe ecc., ma mancava la complessiva consapevolezza di trovarsi di fronte ad una emergenza nazionale e ad un problema più vasto e generale» [14].
Dobbiamo arrivare al secondo dopoguerra per incontrare le prime autorevoli prese di posizione. Il primo è dei Vescovi pugliesi (Per la rinascita delle popolazioni pugliesi, Lecce, 27-28 aprile 1944) sui problemi delle popolazione della regione. Porta la data del 19 giugno 1945 un documento dei vescovi di Calabria in cui si chiede un nuovo ordinamento sociale. Del 25 gennaio 1948 è, invece, il documento dell’episcopato dell’Italia meridionale su I problemi del Mezzogiorno. Il suo testo era stato redatto dall’arcivescovo di Reggio Calabria, Antonio Lanza, e poi sottoposto alla firma dei vescovi (mancò quella dei siciliani per volontà dell’arcivescovo di Palermo, cardinale Ruffini). Pur non avendo avuto molta fortuna, esso presenta una posizione ecclesiale organica sui problemi del Mezzogiorno. La sua prospettiva è dettata dalla dottrina sociale, in base alla quale ricostituire un ordine sociale giusto. La motivazione che l’ispira è profondamente religiosa (cf. n. 2), da cui scaturisce il richiamo alle esigenze della giustizia: «Non possiamo, infatti, rimanere indifferenti o inerti di fronte alla persistente miseria di alcune classi del popolo, alla precarietà di vita e instabilità del bracciantato, al reddito estremamente basso di alcuni lavoratori e coloni, all’evidente ingiustizia di talune forme contrattuali, all’insufficienza di alcune strutture economiche, ai complessi e gravi problemi connessi col persistere del latifondo» (n. 3).
Il documento si diffonde sui problemi legati al mondo agricolo, alla proprietà terriera, ai rapporti contrattuali che li concernono, preoccupato della difesa della dignità dei lavoratori, non solo economica ma anche spirituale, in conformità alle esigenza di verità e di libertà. Non si limita a richiamare i doveri dello Stato, ma enuncia anche quelli dei cattolici, come pure incoraggia l’iniziativa privata, l’associazione dei lavoratori, la cooperazione e tutte le opere economiche e sociali che possono trovare promotori. A segnalarsi, nella coscienza raggiunta della questione sociale del Mezzogiorno, è un’ansia di giustizia direttamente ispirata dal Vangelo. «Spiriti attenti e pensosi dei compiti e dei destini del cristianesimo hanno messo chiaramente in evidenza che esso, come fede e disciplina di vita, non può venir confuso con le varie civiltà nelle quali, lungo il corso dei secoli, è successivamente penetrato, cercando di vivificarle, per poi superarle in una più compiuta armonia. […] nell’attuazione del suo messaggio di carità e di giustizia il cristianesimo ha un’inesauribile potenzialità purificatrice ed elevante» (n. 4). Scriveva Giorgio Rumi che il documento tocca «il nodo centrale del rapporto tra fede e storia, tra religione e politica. La Chiesa non può essere usata per la conservazione di un qualsivoglia ordine sociopolitico: il tempo non è fonte – di per sé – di legittimazione, ma solo l’incarnazione dei valori del Vangelo»[15].
Sulla spinta del documento del documento del 1948 e in seguito alla riforma agraria del 1950, i Vescovi lucani e pugliesi fondano nel 1952 la Charitas socialis, una sorta di comitato per l’assistenza religiosa, morale, educativa e sociale alle popolazioni più disagiate. «La Chiesa al fine di esercitare la sua influenza morale e in continuità con il primo slancio della ricostruzione, si era mossa in sintonia con le nuove politiche per il mezzogiorno sviluppatesi negli anni Cinquanta, inserendosi nel campo dell’educazione, dell’assistenza e del servizio sociale grazie alle opportunità offerte dalla riforma agraria, dagli interventi della Cassa per il Mezzogiorno e dalle diverse occasioni di finanziamenti statali e locali di nuove strutture ecclesiastiche che potevano derivare in genere dalla spesa pubblica» [16]. Ci troviamo di fronte a una sorta di «nuovo meridionalismo della Chiesa locale» e allo «sforzo di rendere concreta la pastorale collettiva del 1948 e soprattutto di mantenere nel tempo questa concretezza: centri sociali, servizi sociali per le famiglie dei lavoratori, cappellani del lavoro, azione capillare socio-religiosa nelle zone della riforma fondiaria, creazione di un ufficio studi col compito di preparare inchieste utili a rilevare le tipologie di interventi per risolvere i vari problemi delle zone depresse» [17]. Nella convinzione che nel Mezzogiorno, insieme a una depressione materiale, ve n’era anche una di carattere spirituale e umana: «Era sorto all’orizzonte un nuovo meridionalismo che metteva insieme le emergenze ecclesiali e quelle socio-economiche» [18].
Di seguito, dalla fine degli anni ’60 a tutti gli anni ’70, assistiamo a una sequenza di interventi di singoli vescovi, come quelli di mons. Aurelio Sorrentino, di Reggio Calabria, e di mons. Guglielmo Motolese, di Taranto, o di conferenze episcopali regionali come quelle dell’Abruzzo e della Sicilia, come pure della Lucania, che nel 1973 affrontano il problema dell’emigrazione, o come quella della Calabria che, sempre nel 1973, lamenta i numerosi problemi della regione, dalla crisi dell’agricoltura, alla carenza di impianti industriali, alla scarsità del lavoro e del reddito, alla povertà di strutture scolastiche e ospedaliere.
La Conferenza episcopale nazionale, che tiene la sua prima assemblea nel 1966, viene messa al corrente della situazione sociale ed economica del Mezzogiorno nell’assemblea dell’aprile 1969. L’approvazione data al testo presentato dall’allora presidente, cardinale Giovanni Urbani, rimane il segno di una attenzione dell’episcopato, seppure non fu seguita da una pubblicazione. La questione del Mezzogiorno viene richiamata dal cardinale Corrado Ursi nel Consiglio permanente del maggio 1973; ma anche questa iniziativa, trascinatasi fino al 1974 [19], rimarrà senza seguito. Nello stesso anno, l’arcivescovo Aurelio Sorrentino, allora a Potenza, pubblica una sua lettera nel venticinquesimo anniversario del documento dell’episcopato meridionale sui problemi del Mezzogiorno [20]. Egli denuncia la questione meridionale come rilevante per tutta la nazione, e non solo per il sud, lamenta la piaga dell’emigrazione e stigmatizza la responsabilità degli stessi meridionali. La sua attenzione non si ferma alla dimensione economico-sociale; si porta invece all’interno della Chiesa, chiedendosi se tutta la Chiesa in Italia sente il problema e quindi se non si debba parlare di una questione meridionale ecclesiale. Nel 1975 interviene con un suo documento la Conferenza episcopale calabra [21], che denuncia, per la prima volta, con determinazione la criminalità organizzata. Un contributo significativo ulteriore è dovuto al vescovo di Ugento, mons. Michele Mincuzzi, il quale, all’indomani del convegno ecclesiale nazionale su Evangelizzazione e promozione umana, in una riflessione su Comunità ecclesiali e Mezzogiorno d’Italia dichiara che il problema del sud si identifica, in radice, con il problema dell’uomo del sud, ha cioè un carattere culturale.
(3-Continua)

Nessun commento: