venerdì 4 marzo 2011

150 ANNI D'ITALIA E D'ITALIANI (16) - L'UNITA' D'ITALIA E LA QUESTIONE MERIDIONALE (SECONDA PARTE)

12 febbraio 2011
Tratto da ZENIT.org
Continua la pubblicazione del discorso pronunciato venerdì 11 febbraio da mons. Mariano Crociata, Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) intervenendo a Conegliano (TV) sul tema “L’unità d’Italia e la questione meridionale: il Magistero della Chiesa e il compito dei cristiani”.
Il problema irrisolto del meridionalismo, compreso quello dell’età giolittiana, è però quello del soggetto adatto a spezzare il circolo vizioso; anche perché una rapace piccola borghesia che faceva della politica la risorsa per sopravvivere, l’unica disponibile sul mercato, che si afferma nel già ricordato passaggio dei primi anni Settanta, rappresentava anche il nerbo di quello che si definisce il “partito della maggioranza”, cioè la struttura di governo dell’Italia liberale sotto le successive leadership di Depretis, Crispi e Giolitti. Essa non esita a utilizzare la rappresentazione della questione meridionale per sottolineare il proprio ruolo “nazionale” e incassarne i dividendi.
È fuorviante l’equivalenza tra inferiorità economica e dipendenza politica del sud, laddove proprio l’uso del meridionalismo rappresenta l’ideologia e il linguaggio che consente alla classe politica meridionale di parlare al sistema politico nazionale, in sede di contrattazione e compensazione. Infatti un filone di studi sviluppatosi negli anni ’80[6] tende a superare quella che definisce la «costruzione ideologica del meridionalismo» e considerare il sistema politico italiano come una stanza di compensazione di interessi regionali, meridionali e non, scomponendo lo stesso meridione (continentale) in diverse realtà, anche alla luce dei cambiamenti avvenuti nel secondo dopoguerra.
I divari regionali e quello nord-sud, modesti nell’immediato periodo post-unitario, aumentano nettamente nella fase del decollo economico italiano, in cui il tasso di crescita è doppio al centro-nord rispetto al sud. L’età giolittiana vede gli interessi regionali trovare un punto di equilibrio anche grazie all’avvio di politiche territorialmente differenziate: è questa la strada che, al di là del fascismo, sarà seguita in età repubblicana.
Il nuovo secolo si apre con un grande dibattito parlamentare nel dicembre 1901, in cui si afferma una politica di intervento nell’ambito di quello che Luigi Luzzatti definisce un «criterio nazionale». Emerge un nuovo “meridionalismo”, fortemente connotato in termini di rinnovamento politico, in senso autonomistico, in un arco che va da Luigi Sturzo, a Gaetano Salvemini, o in termini economico-produttivisti, nella versione “liberista” di Antonio De Viti De Marco e in quella “statalista” di Francesco Saverio Nitti. Questi gioca un ruolo rilevante come ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio: nel primo decennio del secolo si susseguono le “leggi speciali”, che investono in primo luogo i poli opposti e convergenti del meridione, la città sovrappopolata (legge per Napoli, 1904, dopo una inchiesta sul governo locale e la camorra) e la campagna abbandonata e decadente (legge per la Basilicata, 1903, preceduta da una inchiesta e da un viaggio del presidente del consiglio Giuseppe Zanardelli). Il modello viene seguito in diverse altre occasioni, nonostante le critiche del meridionalismo liberista (e dello stesso Sonnino), che denunciava il rischio di clientelismo e la deresponsabilizzazione della classe dirigente locale. Si realizzano comunque importanti infrastrutture, come l’acquedotto pugliese e la ferrovia “direttissima” Roma-Napoli.
Antonio Gramsci analizza il processo in termini di egemonia e sottolinea gli elementi collanti che al sud tengono ben stabile il sistema politico, individuabili in un “blocco agrario” che lega grandi proprietari e contadini attraverso la mediazione degli intellettuali, termine corrispondente nel linguaggio gramsciano a quella che Salvemini definisce piccola borghesia. Di qui lo schema del blocco agrario-industriale che governa l’Italia unita.
Due linee strategiche emergono prima della Guerra per intervenire sulla questione meridionale, la redistribuzione fondiaria e il riassesto territoriale: interventi strutturali che però non possono che essere garantiti e realizzati dal governo centrale e il primo è troppo costoso in termini di consenso. Durante il fascismo, chiusa l’emigrazione, che rappresenta dalla fine dell’Ottocento un impoverimento sociale e morale significativo, ma anche un contributo cruciale alla stabilità e al controllo politico, oltre che alla bilancia dei pagamenti, i tecnici nittiani divenuti fascisti lavorano alla bonifica integrale. Tuttavia, anche per gli effetti della grande crisi mondiale, nel ventennio fascista, il divario nord-sud aumenta sensibilmente, passando da 26 a 44 punti percentuali. Nel 1951, un meridionale ha un reddito pro capite che è circa il 47 per cento di quello del centro-nord; in Calabria e Basilicata raggiunge appena il 37 per cento; in Campania, la regione più ricca del Mezzogiorno, il reddito medio è il 55 per cento di quello del resto del paese.
Negli anni del boom e del “miracolo” economico italiano il tasso medio annuo di sviluppo del Mezzogiorno è del 5,8 per cento annuo, superiore a quello del Nord è del 4,3. Stime affidabili misurano la riduzione del divario del Pil pro capite, nel 1973, al 66 per cento di quello del Nord. Protagonista di questa stagione è una nuova leva di meridionalismo cattolico, espresso nella DC, asse della governabilità dell’Italia repubblicana, tra cui spicca la figura di Pasquale Saraceno[7]. Le tradizionali istanze per la riforma agraria, la lotta all’analfabetismo, la redenzione delle terre malariche, lo scorporo del latifondo, proprie del meridionalismo classico, sono affiancate da nuove prospettive. L’intervento statale era infatti destinato a diventare uno dei principali strumenti con cui si cercò di porre rimedio al sottosviluppo delle regioni meridionali, un intervento pubblico che avrebbe dovuto caratterizzarsi per una forte accentuazione tecnocratica e regionalistica, e fungere da sostegno e stimolo per una piena industrializzazione del Mezzogiorno.
Due sono i perni della fase di più forte impegno delle politiche meridionalistiche statali, che coincide con la migliore performance della sua economia, agganciata al nuovo dinamismo della più complessiva economia italiana. La riforma agraria del 1950 ridistribuisce 700.000 ettari e favorisce la piccola proprietà per altri 2 milioni di ettari, promuovendo poi un vasto impegno per la bonifica e il riassetto del territorio. Con la Cassa per il Mezzogiorno, istituita lo stesso anno, si realizzano importanti poli industriali e infrastrutture. Lo sviluppo di poli industriali nel meridione riesce in quanto complessivamente l’industria in Italia ricomincia a tirare. D’altra parte il patrimonio industriale resta essenzialmente localizzato al nord. Dunque riparte anche l’emigrazione: nel 1971 il 17% della popolazione dell’Italia centro-settentrionale è di origine meridionale. Non si manifesta nessun fenomeno di segregazione e si realizza un sostanziale riassorbimento anche delle situazioni di maggiore diffidenza nell’arco di una generazione. È anche questo un aspetto non trascurabile della “questione meridionale”, in una fase di sviluppo e di rapida omologazione dello spazio culturale nazionale, grazie in particolare alla scolarizzazione di massa e alla televisione.
È paradossale, ma non inspiegabile alla luce del duplice aspetto della “questione meridionale” come realtà e rappresentazione, che in un momento di passaggio molto significativo la chiave culturalista venga (ri)utilizzata – dopo Turiello e Lombroso, all’inizio del Novecento – nel senso di riproporre la frattura, la frontiera meridionale nei suoi aspetti di “leggenda nera”. Il sociologo americano Banfield[8] conia la categoria del “familismo amorale”, dopo uno studio su un paese lucano, svolto (con la moglie italiana Laura Fasano) nel 1954/’55: è perfettamente funzionale a proiettare la “questione meridionale” in una dimensione metastorica, metapolitica e dunque funzionale al mantenimento, fatalistico e inerte, dello statu quo.
La fase dello sviluppo non va oltre la prima crisi petrolifera, a metà degli anni Settanta del secolo scorso. La logica dei “poli” tuttavia, di per sé forzata, per innescare dinamiche di sviluppo, non è perseguita fino in fondo e si trasforma in interventi a pioggia. La classe politica (ri)assume a pieno titolo un ruolo di mediazione tra centro e periferia, che in parte continua quello tradizionale, in parte (maggiore) è del tutto nuovo. L’attuazione dell’ordinamento regionale non innova nel senso dell’efficienza, e anzi rafforza la classe politica locale e il “partito unico della spesa pubblica”, così come era stato per le regioni a statuto speciale all’indomani della costituzione della Repubblica.
La fine delle politiche produttivistiche ha portato alla crisi industriale del Mezzogiorno, anche se risulta ormai difficile continuare a ragionare in termini monistici (cioè dualistici) di un unico Mezzogiorno, per la molteplicità delle traiettorie regionali e distrettuali, che nel frattempo si dispiegano. Il fatto che quella meridionale sia rimasta un’economia in certa misura basata su flussi finanziari provenienti dall’esterno ha favorito la parte peggiore della società politica, determinando il riemergere dei classici meccanismi del ventennio 1861-1880, a partire da quelli legati alla criminalità organizzata e alla sua capacità di controllo e di mediazione del consenso.
In concreto si tratta di riformulare in termini di responsabilizzazione delle classi politiche locali quel “vincolo unitario” degli investimenti nazionali, che ha caratterizzato gli anni migliori dell’investimento per il sud, espresso anche in termini in senso lato tecnocratici. È, ancora una volta, nella sua ispirazione di fondo, la strada sturziana, quella autonomistica, la strada giusta, non solo in chiave economico-politica, ma anche etico-religiosa, nel senso appunto prima di tutto della soggettività sociale, della sussidiarietà e della responsabilità. Così Luigi Sturzo scriveva nell’immediato secondo dopoguerra: « Venendo al punto cruciale, tre sono le condizioni imprescindibili della rinascita del mezzogiorno e delle isole, senza le quali ogni discettazione riesce inconcludente e vana. Prima su tutte la libertà. […] Siamo su falsa strada: l’Italia si è imbarcata in un sistema ibrido di economia di stato per determinati settori dell'industria e della banca, in collaborazione con l’economia privata che risulta di fatto economia di sfruttamento delle risorse pubbliche. Occorre togliere […] la incrostatura burocratica statale; liquidare le industrie deficitarie che non potranno sostenersi da sole, trasformare le vecchie industrie belliche già decadute in industrie specializzate e rispondenti ai bisogni dell'attrezzatura attuale. Non tutto si può fare in un giorno; ma senza un orientamento ben deciso, si va verso uno sperpero di denari e di energie che si pagherà domani assai caro. L’ingerenza statale nell’industria ha creato una situazione insostenibile che si definisce in due parole: monopolio della grande industria che vive da parassita sulla nazione; paralisi industriale nelle regioni meno favorite dalla centralizzazione economica» [9].
(2-Continua)

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